anima mia torna a casa tua

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Non sono il solo a sostenere che la pratica della multiproprietà degli immobili applicata agli esseri umani sia la soluzione. Ma ci pensate? Un solo corpo abitato da due anime, due coscienze, due volontà, due personalità, due entità preposte alle decisioni e no, non mi riferisco alla schizofrenia. Intanto ci annoieremmo di meno. Si estinguerebbero certe tecniche come le seghe mentali (che, in due, sarebbero considerate petting intellettuale a tutti gli effetti) o il solipsismo. Ci sarebbe maggiore possibilità di confronto e, di conseguenza, di fare la cosa giusta. Ci permetterebbe di non affrontare la morte da soli. Soprattutto, ci consentirebbe di vedere le cose sotto un punto di vista diverso, quello dell’altro se stesso.

Anzi, sapete che vi dico? La condivisione di un corpo tra due anime è la formula originaria che è stata pensata per l’uomo e che poi ci è stata sottratta e ora siamo vittime di un complotto affinché nessuno ne reclami il diritto, che ci mette ben più a rischio di quello ordito per i vaccini anti-covid. Qualcuno ha scoperto che, se l’essere umano provasse questo tipo di esperienza, non si accoppierebbe più perché si realizzerebbe in se stesso mettendo a repentaglio la conservazione della specie e forse è andata proprio come diceva quel filosofo, e cioè che una volta le anime gemelle erano tutt’uno e poi qualcuno le ha separate e, da allora, tutti cercano il coinquilino del proprio corpo ma non lo trovano, quindi si ostinano a flirtare e a trombare a destra e a manca fallendo l’unione originale e, per questo, siamo destinati a soffrire le pene d’amore e c’è il male nel mondo. Ma i poteri forti non ce lo dicono.

Una considerazione che si ripropone a valle della visione del cartone “Soul”, il nuovo successone della Pixar/Disney. C’è un momento chiave nel film in cui l’anima di Joe Gardner, insegnante di musica delle scuole medie e ispirato pianista jazz, anziché riunirsi correttamente al corpo da cui è stata accidentalmente separata si ritrova in quella di un gatto lasciando il suo posto di umano a 22, un’anima cinica da sempre abitante del limbo perché rea di non aver mai trovato una passione e, per questo, consapevole che la vita sulla Terra non abbia alcun senso.

L’esperienza di 22 nel corpo di Joe ha la duplice valenza di accendere nell’anima cinica l’amore per le piccole cose della vita e, allo stesso tempo, fornisce a Joe una visione da spettatore di come sarebbe se stesso con questa variante della sua personalità, che anni di estasi compositiva avevano sopito. Il punto è che poi, quando la trama trova la sua ricomposizione e Joe Gardner torna a essere posseduto dalla sua vera anima, il pianista si accorge che la sua passione – la musica – non basta a dare un senso alla vita ma ci vogliono tutte quelle piccole cose che ha lasciato la fugace esperienza di 22 nel suo corpo e di cui si riempie la nostra quotidianità.

“Soul” ha riacceso il dibattito sul target dei lungometraggi animati Pixar, e cioè che – come “Up” o “Inside Out” – siano pensati e destinati a un pubblico adulto. Non c’è dubbio che facciano riflettere su un piano di maturità superiore rispetto a quanto ne possa trarre un bambino da una visione entry-level, focalizzata sulle gag e sulla resa a cartoon della realtà.

In molti infatti sostengono che “Soul” consenta allo spettatore di trovare un nuovo senso alla vita, soprattutto in questo periodo di forti limitazioni al modo di condurla che conosciamo da sempre. Le aspettative di conseguenza sono altissime e, malgrado l’insuperabile qualità di confezionamento dei temi proposti, se di mestiere come me fate l’insegnante (con l’aggravante dell’ex musicista) il rischio di una delusione è concreto e vi spiego il perché.

Joe Gardner insegue per tutta la vita il sogno di esibirsi con jazzisti di alto livello. Per sbarcare il lunario fa l’insegnante e non lo fa in modo distratto come quei docenti che, seduti in cattedra, si chiedono a ogni inconveniente “che cosa ci faccio io qui?”. Si accorge persino del talento della sua allieva trombonista che si distingue dalla massa di coetanei, i compagni di classe per i quali la banda jazz che Gardner dirige costituisce solo un impedimento a quello che preferirebbero fare.

L’equivoco del film è proprio questo: sarà la vocazione didattica la scintilla che accenderà la nuova vita di Joe Gardner? Quando le cose si rimettono a posto e l’anima di Joe Gardner torna nei ranghi, il pianista riesce ad esibirsi in tempo con Dorothea Williams, la saxofonista che gli ha concesso l’opportunità di una vita. Ultimato il concerto, un vero e proprio successo grazie al quale Dorothea conferma l’ingaggio del pianista anche per le serate successive, Joe Gardner si accorge, e lo confessa, che non fosse quello l’obiettivo che stava perseguendo. Se qualcuno di voi fa il musicista sa bene di cosa parlo. Quante volte, a fine serata, ci siamo trovati da soli tra mille perplessità? Un’esperienza forte come un concerto, un sogno rimasto a fermentare e a lievitare per giorni nel brodo dell’entusiasmo dentro di noi, si esaurisce nel giro di una manciata di canzoni e ci lascia con quella nostalgia di qualcosa che, invece, continua a salire di una tacca ma che solo uno su mille – lo diceva anche un cantante che è stato proprio uno degli uno su mille – riesce a capire cos’è. E comunque un rapporto verosimile è più vicino a uno su centomila.

Joe Gardner mette a confronto questo ancestrale spleen con tutte le prime volte provate, nel suo corpo, da 22: una ciambella, il canto di un busker nella metro, i rimasugli di una bevanda gassata rinvenuta sotto un sedile, la pizza, il sole che filtra tra gli alberi di New York e un seme di acero che ti cade in mano mentre contempli la scena seduto al margine di uno di quei viali che fanno da sfondo ai film di Woody Allen. Così, chi per deformazione professionale auspica che Gardner trovi il senso della vita nello trasmettere la passione per il jazz – o per la musica tout court – negli altri (che poi è la mission dell’insegnante) rimane deluso. Dovevamo aspettarcelo: la scena della trombonista che cerca conferme con il suo insegnante – in quel momento posseduto dal cinismo di 22 – per non smettere di suonare è resa in modo sbrigativo e non ha alcun impatto sul resto della trama. Gli altri studenti – gli improbabili componenti della banda che Gardner dirige – hanno un ruolo meno che marginale.

Quindi, in poche parole, se il senso della vita non è suonare (e posso essere d’accordo) e non è nemmeno fare l’insegnante (qui un po’ meno), che cosa ci rimane? Una ciambella sbocconcellata e un seme di acero?

Così, ecco come invece avrei preferito che il film andasse. Joe Gardner realizza che l’orgasmo indotto dall’estasi improvvisativa degli standard jazz è una sensazione volatilissima. Il piano di intersezione tra il mondo reale e quello dell’astrazione dovuta a quello che suoni dura quel che dura e, come ogni altra droga, al risveglio lascia un vuoto. Crea una dipendenza. Così torna in classe dal suo talento al trombone che, a quel punto, costituisce la scintilla per tutti gli altri. La sua mission, la didattica, è soffiare sulla brace ancora accesa per incendiare di passione gli studenti svogliati, quelli a cui non interessa nulla di nulla, per non parlare dei ragazzi che poi si stufano perché non hanno stimoli e mollano tutto.

Il messaggio di “Soul” sarebbe azzeccatissimo se non ci fossero due temi così forti in ballo come il jazz e la scuola. Probabilmente se Joe Gardner fosse stato un piastrellista (premesso che ho molti amici piastrellisti) con la passione delle riprese con i droni (premesso che ho molti amici che si dilettano con i droni) il senso della vita nella ciambella e nel seme di acero sarebbe stato più che sufficiente. Così, invece, si fa un po’ di fatica a dare credibilità al film. Sempre che una favola debba avere per forza credibilità.

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