La collega di religione che trascorre due ore alla settimana in ognuna delle classi è positiva. Non è per niente una bella notizia ma ci ha convinti a fare ancora più attenzione di prima. Io ho il gel igienizzante sulla cattedra e, all’ennesima spalmata sulle mani, mi domando come sia possibile che non sia ancora nata una teoria complottista che metta al centro l’equivalente di qualche big pharma della sanificazione. Ho acquistato una confezione di ffp2 ma basta un richiesta di spiegazione in più o Simone che gioca con la trottola sul banco mentre parlo che vado in iperventilazione. Così quando i soliti alzano la mano per dirmi “maestro mi son perso” esco a prendere una boccata d’aria, premo il pulsante rewind, riposiziono la mascherina e ripeto da capo.
Comunque, tornando all’insegnante fresca di tampone che ha contatti – non necessariamente stretti – con tutti i docenti e i bambini in tutte le aule ogni sette giorni, è una vera notizia bomba ma nel senso di bomba batteriologica, un imprevisto che avrebbe messo ko qualunque organizzazione normale.
Non la scuola italiana. Da noi i docenti che accusano sintomi riconducibili al Covid e sono in attesa di tampone non sono tenuti a informare i colleghi. Stanno a casa ma non hanno l’obbligo di avvisare che nella classe in cui qualcuno dovrà svolgere una supplenza al posto loro ha soggiornato una persona che al momento ha la febbre/il mal di gola/la tosse e far sì che chi coprirà la sua assenza sia consapevole di trovarsi al cospetto di bambini che, a loro volta, sono stati esposti a un potenziale contagio. Ho chiesto alla dirigente e mi ha risposto che è tutto regolare. Non siamo tenuti a mettere in allerta in colleghi perché ne va della nostra privacy.
Non vedo che cosa ci sia da vergognarsi nel dire alle persone con cui siamo stati in contatto che un tampone eseguito sul nostro organismo ha dato esito positivo, oppure che ci troviamo in quota contagio e, di conseguenza, è meglio che chi ci è stato vicino prenda provvedimenti. Quando lavoravo in agenzia mia figlia mi attaccò la varicella. Era aprile, mi stavo godendo la pausa pranzo in un parchetto sotto l’ufficio quando la collega con cui dividevo il panino notò un vistoso brufolo su uno dei miei due zigomi. Ricordo che me l’ero grattato via e poi, rientrato alla mia postazione, provai una sensazione di disagio. Così, dopo aver sollevato la maglietta in bagno, il mio torace si palesò infestato da milioni di inquietanti pustole rosse. Corsi subito a casa, dove passai due giorni con la febbre altissima. Il mio capo inviò immediatamente una mail a tutti i dipendenti per metterli al corrente che un loro collega, con tanto di nome e cognome, era affetto da una malattia esantematica e infettiva. Nessuno mi chiese nulla, tantomeno una liberatoria per divulgare il mio stato di salute. Anzi, il fatto è che a me sembrò una cosa normalissima.
A scuola, invece, i docenti positivi al Covid 19 sono il segreto di Pulcinella. Insegnanti che, da un giorno all’altro, spariscono nel nulla e le cui classi improvvisamente subiscono lo stesso destino, finendo in quarantena. Ma non so se mi lasci più perplesso il fatto che fare corretta informazione nell’ambiente di lavoro della scuola non sia previsto dalla procedura standard o che i colleghi non sentano la necessità di dirlo a tutti, come forma di rispetto. Ma forse sono io che sbaglio.
Anche nel mio piccolo mondo ho saputo della positività dei colleghi dai colleghi stessi o, peggio, dal passaparola di altri e non dall’azienda. La privacy dovrebbe fare un passo indietro di fronte a una situazione come questa, ma sì, forse siamo in pochi a pensare questa cosa. Troppo pochi.