Non è vero che tutti i bambini sono belli, non è vero che tutti i bambini sono simpatici. Se sono brutti chi se ne importa, io non ero e non sono granché ma non posso lamentarmi e alla fine me la sono cavata. Il problema subentra semmai con bambini poco simpatici perché noi adulti possiamo anche chiudere un occhio e passarci sopra, ma l’ambiente dei coetanei può dimostrarsi intransigente. Spesso i bambini poco simpatici hanno nomi inutilmente altisonanti attribuiti da genitori altrettanto infrequentabili ma, da piccoli, in un mondo di Ethan e Nathan e Maya se ti chiami Ludovica nessuno ci fa caso e sembri un personaggio di Guerre Stellari come tutti gli altri. Ma, anche quando sono piccini piccini, è il comportamento antipatico che spinge i pari a praticare isolamento nei loro confronti. Magari cercano di evitarli non per cattiveria, credo cioè che a sette o otto anni quel modo di fare quadrato contro i bambini non simpatici sia tutto sommato una involontaria forma di autodifesa. Il ruolo dell’educatore è di mediazione: da una parte si cerca di convincere il gruppo dei pari ad accettare anche il bambino poco simpatico, dall’altra si deve educare il bambino poco simpatico a far di tutto per essere più simpatico. Due sforzi spesso vani perché l’attività del gruppo, appena vira verso la destrutturazione in assenza dell’adulto, torna immediatamente alla sua conformazione precedente all’innesto forzato del bambino poco simpatico, mentre il bambino poco simpatico difficilmente farà suoi i comportamenti da tenere per risultare più sopportabile. Gli atteggiamenti che rendono i pari refrattari alla personalità poco simpatica sono diversi. Per esempio, se in classe alzi la mano ogni secondo per dare la risposta, alla fine il rischio di attirare il dissapore altrui non è così remoto, questo indipendentemente se la risposta sia quella corretta o meno. La mia Ludovica, un nome di fantasia ma altrettanto fuori luogo nel nuovo millennio, nel giro di una manciata di mesi si è giocata tutta la sua popolarità con una pedanteria oltre ogni soglia. La vedo lì prima fila – per motivi di dimensione non potrei spostarla altrove – costantemente con il braccio teso verso l’alto, in una sorta di saluto celebrativo al regime del protagonismo infantile che a casa le viene avallato dal resto della famiglia ma che, a scuola, deve fare i conti con i tempi e con le dinamiche equamente divise tra il resto dei compagni. Nella corsa per accaparrarsi i posti in mensa ultimamente resta spesso con il cerino in mano e, a fronte di riorganizzazioni manuali per far sì che non resti sola in uno di quei tavoloni sguarniti di bambini che si vedono ai tempi del social distancing, manifesta la delusione con copiosi piagnistei. Oggi quasi non riusciva a deglutire nessun boccone per la disperazione, fino a quando non le ho portato il budino. A quel punto lo sguardo si è rasserenato come il cielo dopo un temporale estivo. Le nubi si sono dileguate dal suo presente e il sole ha fatto capolino negli occhi puntati sul mistero del cioccolato, che chissà perché mette fine a ogni dissidio con il sé e con il resto del mondo e davvero, stupisce che nessuno abbia mai pensato di eleggerlo a sostanza cardine per la sopravvivenza del genere umano, a vaccino per qualunque malessere, a brodo primordiale da cui è nata la vita di ogni essere vivente e in cui siamo pronti ad annullarci per tornare alla nostra vera origine.