il convivio

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Mi piace molto l’approccio della mia dirigente: la mensa è tempo scuola, un’affermazione che io interpreto come mangiare insieme è un momento in cui i bambini stanno tra di loro privi della mediazione della didattica e dell’insegnante e imparano a conoscersi condividendo lo stesso pasto e stando a tavola. Poi è vero che, a fine pranzo, restano un sacco di avanzi ed è un peccato. Però i gusti dei bambini li sappiamo tutti ed è difficile conciliare il desiderio di intercettare l’esigenza di offrire delle alternative a quelle due pietanze in croce che a furia di capricci abbiamo cresciuto i nostri figli e l’obiettivo di riempire loro la pancia in modo che tirino fino alla fine dell’orario scolastico del tempo prolungato. Quando alla primaria c’era mia figlia ricordo di un’associazione di genitori un po’ new age – sicuramente protogrillisti – che avevano concordato un menu da veri radical chic fautori dell’adultizzazione alimentare precoce dei loro figli. Potete immaginare come è finita: ai bambini faceva giustamente schifo tutto e, trascorsa qualche settimana, eravamo tornati alle ricette scolastiche in tutti i sensi. Occorre ricordare che i nostri figli che abbiamo cresciuto a carote a merenda sono quelli che alle feste si sfondano di più di Nutella e Coca Cola e adorano i compleanni al McDonalds, indovinate perché.

Inutile dire che anche il tempo mensa risente delle ristrettezze imposte dall’emergenza sanitaria. Quest’anno sono stati programmati turni molto rigidi lungo le due ore in cui viene fornito il servizio. Il che da un certo punto di vista è positivo, perché prima del Covid il pranzo durava un’ora, un tempo troppo lungo per tenere dei mocciosi a tavola. Noi delle seconde scendiamo in mensa alle dodici in punto e dobbiamo tagliare la corda dopo trenta minuti per dare l’opportunità agli inservienti di igienizzare tavoli e sedie e pulire tutto per il turno successivo. Le pietanze vengono servite in un vassoio da ospedale, diviso a comparti in cui sono distribuiti contemporaneamente primo, secondo e contorno. Prima della pandemia si alternavano i piatti in ceramica con il corrispondente effetto estetico. La sbobba non sembrava diversa da quello che i bambini vedevano a pranzo a casa. Ora la mise en place lascia un po’ a desiderare, molto sacrificata alla praticità. La minestrina di riso e prezzemolo, per dire, ne risente in modo particolare.

Ma ciò in cui i bambini sono penalizzati maggiormente è la distanza che devono mantenere tra di loro. Non più di tre su tavoli lunghi, una disposizione che ammazza la conversazione, i tornei di obbligo o verità e, di conseguenza, la convivialità. Nonostante ciò il fragore è assordante come prima. I bambini parlano meno ma parlano a voce più alta per farsi intendere dai compagni di tavolo e dagli insegnanti. Eppure anche questa nuova normalità sembra non costituire un disagio. I miei alunni continuano a fare le stupidaggini di prima giocando con il cibo, come quando infilzano i panini con le forchette di plastica per costruire gelati immaginari e poi leccano la farina sulla superficie. Trascorsi i trenta minuti che gli spettano scattano in piedi per rientrare in classe, in fila indiana, a un metro di distanza dal compagno davanti e quello dietro, come veri soldatini in una battaglia di cui saranno loro i veri vincitori.

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