In classe, piantato con le puntine su uno di quei inutili listelli di legno fissati sul muro sopra alla lavagna per appendere cartelloni e poster (inutile perché di un legno così denso che comporta l’impiego del martello ma il martello, per motivi di sicurezza, in classe non si può tenere) ho appeso un avviso che non lascia dubbi: “ANEDDOTI BREVI”. Avete presente la scritta “AUTO ADAGIO” che impone di rallentare all’uscita dei box condominiali? In classe, oltre alle direttive anti-contagio per il coronavirus, ho deciso che da oggi si osserva una regola importantissima per il normale svolgimento delle lezioni.
Non c’è argomento o spunto o anche parola scaturita da una lezione che non attivi, nei bambini delle classi più piccole come la mia (quest’anno ho una seconda), la smania di condividere un’esperienza provata a casa, in vacanza, con gli amici e parenti, oppure tratta da quella nebulosa che è il loro passato spazio-temporale in cui un semplice riferimento storico come ieri è ancora un magma che va dal giorno prima a quattro anni fa e un pranzo dalla nonna che abita a dieci km può assumere i termini di un safari di un mese in un continente esotico.
Non tutti i bambini hanno il dono della sintesi e sono in grado di distinguere il superfluo dai dati fondamentali per arrivare al punto. Quando nell’attività in svolgimento – per la quale quasi sempre è richiesta la massima concentrazione – spunta qualsiasi cosa, come il disegno di un lombrico oppure una torta succulenta o, peggio, una gamba ingessata (all’esperienza ospedaliera non c’è bambino che riesca a resistere), come un timelapse di pianticelle che in quattro e quattr’otto si levano dal terreno, veloci e da diversi punti della classe si alzano le mani e gli sguardi dei bambini si accendono di quella voglia luminosa di farmi sapere l’aneddoto che gli è improvvisamente emerso nella testa, un marchingegno dalle componenti ancora in piena fase di assemblaggio e che, quindi, a rischio di lacune nel completamento del processo.
A me spiace non lasciar loro lo spazio che meritano, d’altronde sono i veri protagonisti della scuola, mica noi con il nostro vissuto e quando eravamo dark o punk che non interessa a nessuno. Così mi trovo costretto a dare la parola e, ogni volta, tremo. Cecilia comincia sempre con “maestro lo sai che” e poi, alla quarta inevitabile deviazione tematica, si perde e si ritrova in una storia che non c’entra nulla. Carmen abbassa la mano, studia il banco per una manciata di secondi come se dovesse raccogliere le idee, e poi comincia a raccontare ma, nel frattempo, le idee le si sono di nuovo rovesciate insieme a due dei tre astucci che tiene a disposizione. Al terzo aneddoto, tutti gli altri non vogliono sentirsi da meno e così si dà il via alla vera gara di protagonismo, tanto che i cinque o sei interventi nel frattempo si moltiplicano e diventano diciotto, con una durata media a bambino davvero poco sostenibile.
Comunque non è vero, scherzavo, non ho messo nessun cartello “ANEDDOTI BREVI”, in classe. Non esiste la brevità nella narrazione liquida dei bambini, che è quella corrente che ti trascina via con le parole e il cui unico appiglio – metaforicamente il ramo di un arbusto, un tronco strappato alla boscaglia, un tavolo da picnic in plastica e meno male che ogni tanto qualcuno getta un po’ di plastica in acqua – è la campanella, l’allarme della mensa che scatta all’improvviso, la bidella che porta una circolare, le cavallette, tutti diversivi che esistono solo in letteratura ma che, nel tempo scuola, si manifestano solo quando sono meno utili.
Ogni giorno ci ricasco e, uno ad uno, do loro la parole sperando che si annullino tra di loro e fingendo di essere sorpreso da tutte quelle storie strampalate nel loro mix di verità, sogni, cartoni animati, video di Youtube e racconti dei compagni ascoltati in precedenza, un tesoro di involontaria improvvisazione che, crescendo, la consapevolezza della vita così com’è dilapiderà senza ritorno.