Quando il nome della cosa esprime la cosa in sé alcuni la prendono male perché si trovano di fronte a uno spoiler fatto e finito. Ci sono scarpe di marca Scarpa, per dire. Talmente ovvio che non c’è bisogno di aggiungere altro e se nel mondo funzionasse così, per tutti i manufatti dell’uomo, forse vivremmo con meno pretese e risparmieremmo un sacco di soldi in creativi ingaggiati per inventare il naming più accattivante (che, a proposito, è un aggettivo piuttosto accattivante) per un prodotto che sbaragli la concorrenza.
Ci sono casi analoghi anche nella musica. “Canzone” di Vasco Rossi è, a tutti gli effetti, una canzone, come “Canzone d’amore” delle Orme ha un titolo che, da un punto di vista nominale, non lascia dubbi. Certo, se Le Orme avessero scelto di chiamarsi Il Gruppo oppure The Band (come la band di Robbie Robertson) sarebbe stato fantastico. Il fatto è che Le Orme, almeno fino al 1976, erano famosi non certo per suonare musica leggera e, a chieder loro la composizione di una canzone d’amore, il rischio di trovarsi di fronte a una destrutturazione dello standard da juke-box che a metà degli anni settanta andava per la maggiore doveva esser messo in conto. L’averla intitolata così, almeno, abbatte ogni possibilità di equivoco, e per avere una non-canzone d’amore dovremo aspettare i PIL.
Che cosa ha di particolare “Canzone d’amore”, rispetto alle altre canzoni d’amore italiane e alla produzione de Le Orme stessa? Intanto è uno dei brani più guitar-based di un complesso la cui formazione storica – il celebre trio considerato gli Emerson Lake & Palmer mediterranei – non annovera un chitarrista, ruolo ricoperto nel brano dal compianto Germano Serafin. C’è una ritmica funky che accompagna la strofa, c’è una scala molto importante che risponde al ritornello mentre la voce si allontana con l’ultima sillaba di ogni verso spinta dal delay, c’è un lungo e articolato cambio strumentale in cui le parti di chitarra sono protagoniste, c’è un tema solista che si ripete ad libitum durante la lunga coda. Una struttura – intro, prima e unica strofa, ponte, ritornello, quasi un minuto di parte strumentale, ponte, ritornello, coda – peraltro anomala per un brano radiofonico e da Festivalbar, impensabile per i rigidi canoni della musica commerciale a cui siamo abituati oggi.
E il fatto che Le Orme volessero lasciare la loro impronta di sperimentatori progressive nella canzonetta italiana è facilmente riconducibile al modo in cui il brano è stato pensato ed eseguito, a partire dalla parte di batteria della strofa, con i colpi di cassa così poco lineari e decisamente fuori mercato per i tormentoni estivi. La prova del nove si ottiene attraverso un raffronto con la banalizzazione che ne hanno fatto gli Aeroplanitaliani, in una cover nel 2005. Sostituendo la ritmica di Michi Dei Rossi con un groove da quattro soldi, semplificando gli accordi per mantenere un bordone di basso adatto a ogni cambio e introducendo vari escamotage per rendere il brano ballabile, si ottiene inevitabilmente una normalizzazione degli equilibri che ne neutralizza la magia. D’altronde non tutti i gruppi di matrice elettronica, alle prese con il revamping dei classici della musica italiana, hanno il talento e il gusto dei Delta V.
“Canzone d’amore”, la versione originale, fu una vera e propria hit dell’estate 1976, quella di “Non si può morire dentro”, “Linda”, “Se mi lasci non vale” e “Margherita”, e si classificò al ventiseiesimo posto dei singoli più venduti in Italia. Malgrado sia uno dei brani più famosi della band di Aldo Tagliapietra, non fu incluso nell’album uscito di lì a poco, “Verità nascoste”. Possiamo considerarlo così una parentesi artistica di un complesso in grado di dimostrare di saper suonare qualunque cosa, vendere un botto di dischi per poi tornare, con serietà, al proprio ruolo di gruppo progressive. Un’era che stava per concludersi, proprio come il presagio espresso nel titolo del lato B di quel 45 giri, “È finita una stagione”, l’ennesimo caso di destino nel titolo. D’altronde, un successo è un successo è un successo.