[questo articolo è uscito su Loudd.it]
«Dove ho già sentito questo cantante?» è la domanda che, immaginiamo, si sia posto il popolo millennial dell’indie/post-punk all’uscita di “Don’t Believe”, primo singolo tratto da “Made Of Rain” e pubblicato dai The Psychedelic Furs alle soglie del lockdown.
Ce li figuriamo, questi giovani con la t-shirt di “Unknown Pleasures”, darsi una manata sulla fronte – proprio come quando troviamo la soluzione al tarlo che ci arrovella e non dà tregua – ed esclamare una qualsiasi formula di eureka per aver finalmente scoperto l’archetipo che più di una delle band sulla cresta dell’hype dei nostri giorni ha adottato come marchio di fabbrica, un’alternativa meno vincolante e scontata al timbro di Ian Curtis. Richard Butler è proprio quella voce lì, così iconica per gli anni ottanta come per il duemila e rotti, perfetta tanto per “Pretty in Pink” quanto per “Stranger Things”.
E chissà se è tutta questa attenzione per gli anni ottanta ad aver spinto i The Psychedelic Furs a rimettersi in gioco, se alla base ci sia un desiderio di riscatto per ricordare al mondo che la splendida musica che c’è adesso deriva da un nucleo di padri fondatori che vede proprio loro occupare i primi anelli di una ancestrale catena sonora.
Ma anche se fosse tutto premeditato – un calcolo interessato per sincerarsi che il mondo ha ancora voglia di spendere soldi in dischi, riproduzioni di singoli sulle piattaforme di juke-box virtuali, partecipazioni con mascherina ai concerti live perché, tutto sommato, qualche soldo ai ragazzi del nuovo millennio e ai cinquantenni che arrivano da quello precedente lo si può ancora scucire – chi se ne importa.
Dei The Psychedelic Furs non si avevano novità dall’uscita di “World Outside” nel 91 e dall’impiego della cover di “How soon is now?” dei The Smiths ad opera dei Love Spit Love – band guidata da Richard Butler con il chitarrista Richard Fortus, confermato in “Made Of Rain” in veste di produttore – come sigla della serie tv “Streghe”, a cavallo tra i due secoli.
Facile quindi immaginare il mix di entusiasmo e perplessità alla vigilia dell’uscita di “Made Of Rain”. I sessantenni fanno rock per i sessantenni perché le nuove generazioni sono – giustamente – interessate ad altro e a volte non darsi pace perché – ancora giustamente – sei attaccato alla vita e non vuoi toglierti di mezzo può risultare, come minimo, patetico.
Non è certo il caso dei The Psychedelic Furs. Delle tre vie – 1. tornare a ruggire con lo stesso vigore dei vent’anni con il rischio di dover abbassare di almeno due toni tutte le canzoni e di alzare almeno di due misure la taglia dei pantaloni in pelle; 2. presentarsi in versione acustica come vecchi nostalgici con la sbronza triste che il pubblico si ferma ad ascoltare per pietà come si fa con il nonno che racconta per la trecentesima volta lo stesso aneddoto – hanno scelto la più saggia: i suoni sono gli stessi di sempre, il genere si sente che è suonato da persone non più giovanissime, la forza emotiva è il risultato di chi vuole aumentare la propria arte con il valore aggiunto della maturità, consapevole che essere anziani e rockettari (nel caso dei nostri, post-punkettoni) può risultare, tutto sommato, una condizione dignitosissima.
Un’esperienza vissuta in prima persona, descritta in “I Am The Boy That Invented Rock ‘n’ Roll”, la traccia che introduce “Made Of Rain”, raccontata in versi come “The breathless air the frozen tide / The greenless spring the timeless night / The suicidal drunken dance / The sense that things will fall apart”.
E chissà che la pioggia, elemento di cui è composto questo nuovo lavoro, non sia proprio la stessa che scendeva copiosa nel video di “Heaven”, un evergreen da chissà quante centinaia di migliaia di copie vendute, uno dei brani più rappresentativi degli anni ottanta che ha contribuito alla fama mondiale della band inglese. Di sicuro, seppur privo di un singolo da hit parade di altrettanta portata, “Made of Rain” è ricco di canzoni di indubbia qualità a partire dai singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album: “Don’t Believe”, con il suo manto psichedelico, la romantica “You’ll Be Mine”, “Come All Ye Faithful” costruita tutta su un solo accordo e soprattutto “No One” e la sua atmosfera dark-wave. A completare la varietà degli ascolti contribuiscono canzoni come “Ash Wednesday”, un sofisticato lento piuttosto anomalo per la band di Butler e certe reminiscenze eigthies come “Wrong Way” o “Turn Your Back On Me”.
Meno graffiante dei tempi d’oro ma molto più autentico di analoghe iniziative di altri artisti ultra-sessantenni, “Made of Rain” si candida a costituire l’album del ritorno in grande stile per una delle band che ha influenzato di più i gruppi dell’attuale rinascimento post-punk, gli stessi nei quali abbiamo riposto tutte le speranze affinché al rock sia conferito il lustro che merita. I The Psychedelic Furs, anziché tentare una sconveniente operazione nostalgia della band che ci faceva ballare ai tempi di “Talk Talk Talk”, dimostrano di saper guardare avanti senza rinnegare le radici, reinterpretando da grandi, anzi, da anziani il genere che li ha resi unici, consapevoli di aver già detto tutto sul loro personalissimo ed eclettico post-punk allora.