Di ritorno da Firenze, oggi mia figlia in auto ha messo dal suo account Spotify premium una manciata di secondi di “Never gonna give you up” di Rick Astley per poi passare a “Love will tear us apart”. Il 18 luglio del 1980 la Factory Records pubblicava il disco postumo dei Joy Division “Closer”, quello con la foto della tomba appartenente alla famiglia Appiani scattata al cimitero monumentale di Staglieno, Genova. A casa, poco dopo, prima di coricarmi, ho cercato su Rai Play le puntate di “Techetechetè” che ho perso durante questa breve vacanza in Toscana, quelle dedicate alle canzonette italiane, quelle di Sanremo e dei varietà degli anni ottanta. Il tutto mentre sto consumando il nuovo disco dei Protomartyr, “Ultimate Success Today” di cui devo scrivere una recensione, un album di una cattiveria e di un pessimismo cosmico senza precedenti. Qual è il filo conduttore di questa bizzarra compilation di cose apparentemente scollegate? Spero che anche a voi capiti che a volte sembra che i suoni prendano il posto delle nostre cellule. Abbiamo tessuti, organi e apparati con funzioni diverse, corretto? Bene, secondo me basta essere sufficientemente accomodanti per scoprire che c’è posto per tutto quello che ascoltiamo. Il fatto è che a volte corriamo il rischio di esser scambiati per superficiali, per pericolosi perditempo, per scialacquatori di emozioni o gente prodiga di vita per finalità superflue. Così è facile sentirsi in colpa. Quando succede a me, anche se sono da solo e queste canzonette me le ascolto di nascosto, cerco di trovare i difetti in questo sistema di cose per dimostrare a me stesso che fa acqua da tutte le parti e che sarebbe più proficuo fare altro. Per esempio, stasera ho provato i brividi anche mentre Memo Remigi cantava “Innamorati a Milano” con un balletto in bianco e nero sullo sfondo di una Piazza del Duomo con la nebbia che non esiste più almeno dall’inizio del Global Warming. Era un programma TV della fine degli anni sessanta e Memo Remigi somigliava tantissimo a un cantautore con cui ho suonato per molto tempo, da ragazzo. Un cantautore che aveva lo stesso timbro e lo stesso modo di scrivere testi melensi. Ho dovuto così ammettere con me stesso che, più che essere composti al 60% di acqua, siamo una specie di soluzione di parole in rima che, quando sono nella nostra lingua, ne comprendiamo il senso, ci vergogniamo di riconoscerci anche quando sono delle sciocchezze, e facendole nostre non riusciamo a tenere a bada la pelle d’oca. Questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, a me è successo con “Anna e Marco” di Dalla, ci commuoviamo pure. Non so perché ci sia stato il bisogno di inventare tutte queste canzonette e di farle durare nel tempo anche quando la nostra civiltà va avanti e c’è gente che ne inventa delle altre, sempre tutte uguali ma con parole diverse per dire poi chissà che cosa.