[questo articolo è uscito su loudd.it]
Quello dei The Wants è un ottimo esordio e “Container” un disco come quelli che si facevano una volta. Un commento non molto appropriato per una band che suona un genere tutto sommato derivativo. La sostanza però è questa, e il risultato è sorprendente.
Se avete vissuto la quarantena da Covid-19 serrati in casa, oltre a comportarvi da cittadini coscienziosi, vi sarà risultato più facile trovare uno strato in più di riparo da qualunque contagio (meglio abbondare in sicurezza) negli agi della vostra comfort zone preferita. Per chi come me si è nascosto dietro ai bastioni in plexiglass del post-punk, quello dei The Wants è stato uno dei lanci di generi di sopravvivenza più riusciti di tutto il lockdown.
I The Wants vengono da New York e suonano bene la musica di fine 70/primi 80. Rock-wave, disco-punk, new wave, chiamatela come volete tanto non c’è genere più attuale e nessuno mi convincerà del contrario. Della band fanno parte Madison Velding VanDam (voce e chitarra) e Heather Elle, entrambi in forza a un altro gruppo del circuito indie newyorkese ma molto meno bravi, i Bodega, con in più Jason Gates dietro alla batteria.
“Container” è un disco come quelli che si facevano una volta, intendo quando Wire, Suicide e Cabaret Voltaire (citati qui tutt’altro per caso) erano sulla cresta dell’onda alternativa. Un tempo in cui i long playing erano concept, prima che materiale da riempire il più possibile di canzoni. L’approccio dei The Wants è interessante perché conferisce eguale dignità a musica e voce, brani strumentali e cantati, alternati in un modo intelligente e audace. Una tracklist pensata per aumentare la curiosità per ciò che riserva il brano successivo, se quello che stiamo ascoltando è così trascinante.
Mi riferisco al modo in cui la rumorosa “Ramp” chiama la geometrica title track “Container”, un workspace creativo in cui i Devo collaborano con i Sonic Youth. E al linguaggio macchina di “Machine Room” che sanifica l’ambiente da ogni residuo sonoro per la travolgente “Fear My Society”, l’inno della modernità suonato come avrebbero fatto i Talk Talk. A parte qualche parola declamata nel ritornello, possiamo considerare anche “The Motor” uno strumentale synth-wave, seguito dal consueto intermezzo elettronico.
Si ricomincia con qualcosa di più melodico subito dopo con“Ape Trap”, in quota dark-wave questa volta, grazie al riff di chitarra che gioca su un intervallo di semitoni strettissimi. “Waiting Room” è la sala d’aspetto di “Clearly a Crisis”, un funk-punk dal groove rallentato, che lascia il posto alla nervosissima “Nuclear Party”. Per “Hydra” possiamo tirare in ballo i Chameleons, ma giusto per farvi capire di cosa i The Wants sono capaci e cogliere le loro numerose sfumature, caratteristica confermata dalla vena industrial del finale di “Voltage”.
Se non vi siete persi lungo questi cambi di direzione repentini, le canzoni fatte e finite non sono così tante ed è un bene, per un genere che necessita comunque della massima concentrazione in fase di ascolto. E se riuscite anche a ballarlo, tanto meglio per voi. Al netto delle incursioni nel noise artificiale, l’esordio dei The Wants è una piacevolissima sorpresa in questo nefasto anno bisestile. Le loro performance dal vivo disponibili in rete, inoltre, restituiscono l’impressione di una band vera composta da strumentisti che mettono la tecnica al servizio dell’originalità. Artisti da seguire con interesse che speriamo di vedere in concerto anche dalle nostre parti, nel breve periodo.