Per esperienza posso assicurarvi che non vi sia nulla di più divisivo in una coppia del progressive. Sul jazz si può litigare e il vostro/la vostra partner può offendervi dicendo che ascoltate musica da vecchi. Ci sta. Se siete metallari mi metto dalla parte lesa, perché non potrei vivere mai a fianco di una persona che ascolta un genere tanto kitsch. Mettere un disco di progressive invece è come dire che si ha voglia di litigare. Il vostro/la vostra partner si sentirà tradito/a di fronte a una scelta così scellerata. Non avete idea di quante crisi sono nate al non-ritmo di una canzone dal tempo dispari.
Ma c’è di peggio, perché flauti, organi hammond e composizioni strumentali da venti e passa minuti, quello che possiamo ricondurre all’idea che la gente tra virgolette normale ha del progressive, equivale a quando portate in casa, su dalla cantina, un cimelio di un’epoca che non c’è più con tutta la sua puzza di muffa proprio mentre il vostro/la vostra partner ha appena versato nel diffusore di aromi la sua essenza preferita. Vi sfido così a mettere “Discipline” dei King Crimson, un meraviglioso quanto inspiegabile ibrido che riunisce, in una manciata di tracce, la no wave dai tratti di peggiore incomunicabilità con la vocazione estremista e isolazionista del progressive. Divorzio assicurato.
E, di fronte al giudice o, nel migliore dei casi, al cospetto di un buon analista in una seduta di terapia di coppia, pentiti di esservi lasciati tentare da quel disco dalla copertina così ostica, punterete il dito contro Adrian Belew e Robert Fripp, innanzitutto. È tutta colpa del loro modo presuntuoso di incrociare le chitarre. Ve la prenderete con le linee vocali completamente fuori di testa e la pesantezza e l’oscurità dei testi. Tirerete in ballo quel cazzo di Chapman Stick di Tony Levin o il modo di andare per la sua strada, indipendentemente dal contesto, di Bill Bruford. Altro che bestie di satana o dischi suonati al contrario. Qualcuno deve aver sovrapposto per errore le tracce di “Red” e di “Remain In Light” e ha evocato l’anticristo in persona.
Ma, su tutto, chiederete i danni per avervi rovinato la vita a “Indiscipline”. “Quando è iniziato il brano ho avuto paura che mio marito/mia moglie mi uccidesse”, vi sentirete dire. Sarete accusati di aver oltraggiato il comune senso dell’ordine e della regolarità, di aver traviato menti alla follia nell’impossibilità di comprendere il principio e la fine di un brano e di contare prima i quarti poi gli ottavi e persino i sedicesimi per riportare una canzone a un tempo conosciuto. Si ricorderanno persino di quella voce allucinata che, dal nulla, parlava di una cosa incomprensibile, frutto di ore di impegno, da portarsi in giro, da osservare, in grado di coinvolgere. Un mantra da ripetere sotto stress. Una sensazione che, alla fine, piace. Forse un pezzo che parla del pezzo in sé. Una sega mentale.
Ma, anche se trascorrono gli anni, il culto pagano per “Indiscipline” non invecchia e il suo principio attivo resta sempre maledettamente nefasto. La gang colpevole della strage si ripresenta in formazioni diverse, si succedono componenti, si separano le vite, il passato si fa sempre più indistinto.
Fino a quando incontri per caso, decenni dopo, il tuo/la tua ex. Gli/le chiedi di salire a bere qualcosa e, mentre lui/lei contempla le foto sul camino della nuova vita che ti sei fatto dopo che ti ha lasciato/a, vai su Youtube e metti a tutto volume la versione di “Indiscipline” dei King Crimson tratta dal “Live in Mexico City” del 2017, quella con i tre batteristi davanti. Vendetta è compiuta.