Su Facebook, sia chiaro. Qui invece comando io e non nomino nessuno per continuare la catena. Il fatto è che è venuto il momento di fare una classifica dei miei cinque film preferiti. Così, senza motivo.
Al quinto posto metto il classico dei classici, “2001 odissea nello spazio” e non vi sto a spiegare il perché. C’è il senso della vita e della morte e della vita ancora, ci sono duemila anni di filosofia, c’è più di mezzo secolo di cinema successivo, è uno dei primi videoclip musicali della storia, c’è la risposta a qualunque domanda vi venga in mente, senza contare l’intelligenza artificiale di cui si parla tanto oggi, con i dispositivi in casa che ti ascoltano, ti rispondono, fanno quello che dici ma il più delle volte fanno di testa loro. Qui addirittura mettono a punto un piano per sbarazzarsi degli esseri umani, finché non ci si trova in una stanza bianca da vecchi con un maxischermo touch a forma di monolite di seconda mano, già scartato da una specie di tribù di scimpanzé che probabilmente hanno ripiegato su un modello a molti pollici in più.
Al quarto posto metto “Fino all’ultimo respiro” per via di Jean Seberg con i capelli corti. A pensarci bene è solo una posa perché, dal punto di vista puramente estetico, il suo bianco e nero non teme confronti. Ma non mi sembra un problema, corretto? Anche Belmondo fa la sua sporca figura. E se non vi basta questo, Nouvelle Vague, in inglese, si traduce con New Wave. Non aggiungo altro. Anzi, aspettate: la scena con le facce che fanno capolino sotto le lenzuola e il close-up finale sulla bellezza di Patricia e il pollice che accarezza le labbra e che significa schifo, mi pare che dica così no?
Al terzo c’è “Gran Torino” di Clint Eastwood perché, se potessi scegliere una vecchiaia, la vorrei così, a parte poi nella cabina elettorale perché io e il vecchio Clint non abbiamo proprio gli stessi gusti. O magari poi da anziano, cioè tra un paio d’anni, anch’io divento così, con una macchina d’epoca in garage, litri di diffidenza per il cinese della villetta a schiera di fronte ma con un senso della giustizia come piace a me. Il sacrificio finale è uno dei momenti più belli della storia americana.
Al secondo c’è “Broken Flowers” perché il tour delle ex fidanzate è una di quelle esperienze che farebbero parlare di me. Certo, non ho il carisma dell’attore del giorno della marmotta, però quando si dice che ci facciamo dei film è proprio questo che si intende. C’è poi il fattore Mulatu Astatke, il primo musicista africano ad aver frequentato il Berklee College of Music. Poi un giorno vi racconterò di quando avevo chiesto informazioni per andare a studiare proprio in quella scuola lì, a Boston, e quando ci penso mi scappa da ridere ancora oggi.
La poesia di Jarmush è superata solo dalla prosa di Paul Auster e dal suo “Smoke”, che poi la regia è di uno sconosciuto ma la realtà non cambia. “Smoke” è il mio film preferito di tutti i tempi e regna incontrastato nella mia vita dal 1995 e non chiedetemi quale pellicola ha spodestato perché non me lo ricordo o forse prima non facevo questo genere di liste. “Smoke” è un intero scaffale di bestseller, letteratura allo stato puro, storie che si incastrano in un angolo di Brooklyn dove c’è Harvey Keitel (che in quegli anni non perdeva occasione di farsi riprendere nudo nei film e meno male che in questo ci ha risparmiato della visione del suo apparato genitale) che scatta una foto nello stesso punto, alla stessa fottuta ora di ogni giorno. Lo scrittore Paul Benjamin – una specie di Auster con le sembianze di William Hurt – fa da tutore temporaneo al ragazzino che gli salva la vita (lo ritroveremo giudice nella prima stagione di “Goliath” insieme allo stesso Hurt, per giunta). Tra gli altri guest troviamo Rizzo di “Grease” e Coco Hernandez di “Saranno famosi”. Il finale, con “Il racconto di natale di Auggie Wren”, costituisce la vetta della cinematografia del mondo mondiale e non ammetto contraddittori. Fateveli sul vostro, di blog.