La cosa che mi fa più riflettere sul senso del tempo è un episodio che mi è accaduto da bambino. Era l’aprile del 1975 e la Rai, a ridosso dell’anniversario della Liberazione, trasmise un documentario intitolato “Trent’anni dopo” che, attraverso immagini d’epoca e interviste, raccontava con una di quelle voci sobrie degli speaker dell’epoca i fatti e com’era andata. Mi fa riflettere perché, oggi che è il 2020 e sono settantacinque anni dalla fine della guerra, se conto a ritroso di trent’anni (come faccio nelle videolezioni con i miei bambini quando ci esercitiamo sul gioco dell’oca per orientarci in entrambi i sensi sulla linea dei numeri) ottengo il 1990 che è un anno davvero dietro l’angolo. Del novanta ricordo benissimo l’università, la cartolina per il servizio militare perché non avevo seguito una procedura corretta per quello civile, persino i mondiali con i tifosi della Svezia che indossavano le corna da vichinghi sui lungomare delle cittadine rivierasche della Liguria. Nel 1975 avevo otto anni e per mia mamma e mio papà, che seguivano insieme a me quella trasmissione sul divano davanti alla tv, i trent’anni prima dovevano essere altrettanto vividi nei loro ricordi. Probabilmente sarebbe stato sufficiente spalancare una finestra per cogliere ancora, per strada, gli odori della polvere da sparo, le macerie dei bombardamenti, i cadaveri degli antifascisti vilipesi, gli alleati in parata nella piazza principale della città, la povera gente – comparsa perfetta per il neorealismo – darsi da fare per ricostruire. Ma, e non vorrei sopravvalutarmi, probabilmente già allora la retorica non faceva per me. Mi bastava e mi bastano tutt’ora i fatti.
Così in questo venticinque aprile a porte chiuse mettere “Bella ciao” a volume alto, per farmi sentire dalle villette a schiera di fronte, non mi ha dato nessuna soddisfazione. Quando è passato il surrogato di corteo composto da un’auto che metteva i canti della Resistenza seguita da due compagni in bicicletta con mascherina e bandiera rossa li ho salutati con il pugno chiuso dal balcone ma, come al solito, ho sbagliato braccio. Poi ho fatto la spola tra un canale e l’altro per vedere, per l’ennesima volta, gli estratti dai combat film, la scena esaltante dei fascisti traditori appesi al contrario, gli automezzi stracolmi di patrioti per le strade, gli ultra ottuagenari – che chissà di tutti quelli quanti sono ancora in vita – ricordare la storia in programmi di qualche tempo fa. Lo sapete, vero, come si fa a riconoscere un’intervista fatta prima del lockdown da una in diretta? Oggi si interviene ai programmi tramite fotocamera del proprio dispositivo e in streaming, e della qualità dobbiamo accontentarci. Ma, per una volta, festeggiare la liberazione così ci sta.
Giunta la sera, abbiamo provato a vedere un film consigliato da Netflix, un adattamento de “Una questione privata” di Fenoglio con attori italiani ma non abbiamo resistito oltre il primo dialogo. L’abbiamo già detto mille volte ed è inutile ripeterlo: se hai una dizione discutibile e in più ti registrano in presa diretta perché il doppiaggio non è previsto con l’aggravante dell’inflessione dialettale, chi ha una certa età come me non capisce una parola di quello che dici. Nella prima scena si vede quell’attore che ha interpretato anche De André rivolgere una domanda a una donna al cospetto della casa che è poi la location centrale della storia del libro. Mi piacerebbe dirvi che domanda ma non sono riuscito a decifrare. Così abbiamo visto “Clockers” di Spike Lee che non c’entra niente ma, per lo meno, non è un film italiano. Siamo però tutti d’accordo che la nostra resistenza sta per terminare che il giorno dell’insurrezione – pianificata per il prossimo 4 maggio – oramai è a un tiro di schioppo. La nostra piccola guerra sta per finire. Possiamo cominciare a scavare tra le macerie.
Aldo era il nome di mio papà che, ragazzino, distribuiva volantini antifascisti a Milano (era del ’27).
Sono sicuro che direbbe 4×5 e sarebbe l’inizio della Liberazione 2 😉