Ieri, nel corso di una delle numerose videoconferenze di programmazione del lunedì che mettono in contatto noi insegnanti in diverse combinazioni (riunione di team, riunione di interclasse, riunione di interclasse con l’altro plesso, riunione di materia), dovendo affrontare l’annoso problema della valutazione, mi sono trattenuto dal condividere con i colleghi il mio giudizio sull’esperienza che stiamo vivendo e che mi è apparso davanti come uno di quei titoli di film o episodi di serie di tv inseriti nel montaggio dopo un po’ che la trasmissione è iniziata e che, se non stai del tutto concentrato, corri il rischio di chiederti se quello che guardi sta iniziando oppure sta già finendo. Si tratta di una tecnica molto in voga e che trovo peraltro efficace. Crea uno stacco nella narrazione tra una sorta di preambolo e il racconto vero e proprio, aumentando la curiosità dello spettatore, un po’ come fa Mentana che con il suo pippotto iniziale prima della sigla del suo telegiornale e dell’ulteriore riassunto ma si sa, per contenere l’ego del direttore del tg7 ci vorrebbe almeno il doppio schermo come hanno i grafici e chi si occupa di video editing.
Io invece sono una persona umile e ho preferito non esser frainteso per quello che fa il sofisticato dicendo ai colleghi che questa esperienza di didattica a distanza a cui il lockdown ci ha costretto per me è un surrogato di scuola, un museo delle cere dell’insegnamento, un modellino di lezione da assemblare venduto a dispense in edicola, pezzo dopo pezzo, come gli aerei della prima guerra mondiale o gli Ape Piaggio.
Temevo che sganciare una bomba – di aria fritta, perché secondo me sotto sotto ne siamo consapevoli tutti e poi, detto da me che sono l’animatore digitale – sarebbe stato disorientante. Quelli che usiamo sono straordinari e potenti strumenti di collaborazione e comunicazione. Ma una lezione in videoconferenza è poco più della televisione dal punto di vista dell’interazione con lo spettatore, con l’aggravante che si perde la sfida con la qualità di riproduzione degli apparecchi a millemila pollici che accendiamo per guardare quei film e quelle serie tv di cui parlavo prima. Entriamo nelle case delle famiglie con la nostra inadeguatezza al contesto ma non ne voglio fare una colpa. Nessuno ce lo ha mai insegnato, siamo i pionieri della scuola da pandemia e non possiamo far altro che procedere per tentativi.
Soprattutto per noi delle classi più basse della primaria. Ci manca quella visione dall’alto mentre passiamo per i banchi, le dita sui quaderni a indicare dove la coloritura è da migliorare, sedersi sui talloni per offrire conforto alle lacrime, poter girare intorno ai bambini seduti come si fa con quegli effetti speciali in cui si blocca la ripresa e la telecamera ruota intorno al protagonista.
Ieri Carmen, che mi piace perché è anticipataria e dice tutto quello che le passa per la testa, appena ha acceso il microfono ha detto che stava giocando e che l’avevo disturbata interrompendo il suo passatempo preferito. Un esordio che ha fatto imbarazzare moltissimo la mamma al suo fianco – perché in prima poi bisogna tener conto anche del fatto che i bambini non sempre sono indipendenti con i dispositivi – tanto che, terminata l’ora, mi ha scritto immediatamente per scusarsi del comportamento della figlia. Io ho minimizzato perché avrei fatto lo stesso. Mi sarei comportato proprio così, se fossi provvisto del coraggio che ha Carmen. Ho immagino Carmen che, al posto mio, dice ai colleghi che questo è un surrogato di scuola e che non è affatto vero che è meglio che niente. Meglio lasciarli giocare, i bambini, e non disturbarli più.