In questi giorni in cui si celebra, come ogni anno, la trasgressione per antonomasia con l’anniversario della morte di Kurt Cobain, l’evento che più di ogni altro costituisce una best practice di vita d’artista, è bene ricordare come spesso il filo rosso che lega arte e ribellione, in Italia, sia spezzato da fattori riconducibili a ordine precostituito e burocrazia come i vigili urbani e la SIAE.
Probabilmente se siamo così poveri dal punto di vista della cultura musicale, e se dalle nostre parti la musica è poco meno che una sorta di ammortizzatore comportamentale, convenzionalmente inteso come l’effigie di un’ora di ricreazione a settimana nei programmi della scuola dell’obbligo, è anche perché qualsiasi aspirazione artistica deve fare i conti con l’interpretazione del concetto di diritto d’autore proprio di un’istituzione anacronistica come la SIAE e con il fatto che l’applicazione della legge in termini di rispetto dei luoghi pubblici è pedissequamente fatta osservare senza la minima considerazione del contesto.
L’opera di vigili urbani e SIAE dà il meglio di sé congiunta, quando cioè è intesa come unione di forze volte al soffocamento di qualunque espressione artistica sopra la soglia della percezione personale. Potete tentare un esperimento in prima persona: se ascoltate una canzone o suonate uno strumento a volume utile solo alla fruizione individuale nella vostra cameretta non succede nulla. Provateci con le finestre aperte o in giardino e, nel migliore dei casi, arriverà l’auto della polizia locale e vi verrà chiesto di smettere. Nel peggiore dovrete pagare una multa per disturbo della quiete e un’altra per diffusione di composizioni altrui non dichiarata all’organo ufficiale competente tramite apposita procedura.
Non so se funzioni ancora così, ma quando facevo il musicista uno della band doveva stare pronto a scrivere su un modulo dal nome fintamente evocativo di borderò SIAE in tempo reale – cioè al termine della singola esecuzione – titolo e autore di ogni pezzo della scaletta. Immaginate Mick Jagger che, sull’ultima nota di “Satisfaction” e con centinaia di migliaia di fan in delirio nella stadio pieno, prende il microfono per avvisare il pubblico di pazientare qualche minuto per il brano successivo, giusto il tempo di registrare titolo e autori del pezzo appena terminato sul documento che permette la continuazione stessa dell’evento a cui stanno partecipando.
In questi tempi di quarantena le citttà sono piene di dj improvvisati che spezzano la monotonia dei giorni oramai senza nome per far parlare un po’ di sé al vicinato. Ne ho uno, qui di fronte, che propone una selezione ogni giorno alle sei del pomeriggio, una playlist vergognosa sulla quale però estendo la mia indulgenza, considerato il momento storico.
A qualche centinaio di km da qui, un amico fa la stessa cosa da casa sua, con l’aggravante della diretta Facebook. La musica che propone è dozzinale ma, lo sapete meglio di me, la gente ha preso iniziative di questo genere come una tappa obbligata di una routine quotidiana: alle diciotto l’appuntamento nazionale è con la spensieratezza. Ieri, però, è accaduto un increscioso fuori programma: a più di un mese, oramai, dalla nascita di queste forme di sopravvivenza alla clausura forzata, qualcuno si è rotto i maroni dell’esposizione metodica e forzata alla musica di merda e ha chiamato i vigili che, nel mezzo della diretta Facebook, gli hanno intimato di spegnere tutto, senza un briciolo di comprensione.
Una telefonata anonima, l’intervento delle forze dell’ordine, e dopo il silenzio. Meglio il nulla o la presunzione di avere gusti universali? Meglio le canzoni di Jovanotti e Celentano e l’Inno di Mameli o il surreale vuoto di un lockdown, rotto saltuariamente dalle sirene dell’ambulanza? Chi ha deciso la sequenza delle note delle sirene, poi? Si possono armonizzare con la voce senza pagare i diritti a qualcuno?