Sono un insegnante di scuola primaria che lavora almeno dieci ore al giorno. Non voglio passare per eroe, ma è dall’ultimo giorno che ho trascorso in classe – era il 21 febbraio, più di un mese fa – che sto seduto al computer dalle sette del mattino sino all’ora di cena e oltre, sino a tarda sera.
Il mio incarico è che la piattaforma di didattica digitale dell’istituto comprensivo in cui sono di ruolo funzioni per il meglio. Questo significa principalmente supportare i colleghi che non si sentono a proprio agio con la tecnologia e aiutare le famiglie che non hanno garantita la continuità didattica.
La realtà però è molto più terra-terra. Potrei snocciolare dei dati e dimostrare che almeno l’80% di chi non riesce ad accedere ai servizi di Google Suite – è il nome della piattaforma di didattica digitale – sono genitori (ma anche docenti, ogni tanto) che non si ricordano la password che hanno deciso loro. Il resto è un mare immenso di persone dotati di dispositivi che non userei nemmeno come supporti per fioriere, hanno impostato a loro insaputa Edge come browser, fanno errori di battitura quando scrivono gli indirizzi e-mail per fare log-in o per condividere materiali con docenti e alunni, o addirittura non hanno mai usato professionalmente un dispositivo digitale malgrado sia il 2020. Dal mattino a sera sono letteralmente sommerso da email, messaggi whatsapp e chiamate in cui mi vengono sottoposte rogne epocali ma che poi riesco sempre a risolvere perché, per mia fortuna, si rivelano problemi piuttosto elementari. Un vero e proprio servizio di help-desk, a tutti gli effetti. Ma non mi pesa affatto, giuro. La scuola pubblica è un servizio, e aiutare chi usufruisce di questo servizio e chi è tenuto a erogarlo è un piacere.
Oggi una collega della primaria mi ha chiesto se potessi chiamare una famiglia di recente immigrazione che ha due figlie a scuola da noi. La piccolina frequenta la seconda e la grande la quinta primaria. Al telefono ha risposto proprio lei, che è quella che in casa parla e capisce meglio l’italiano. Aveva il pc acceso davanti e le ho spiegato passo dopo passo tutto quello che doveva fare per accedere ai corsi di Google Classroom della sorellina. Ancora una volta il problema si è confermato facilmente risolvibile. C’era il solito impasse del conflitto tra più account Google attivi su Chrome, ora non ve lo sto a spiegare perché sarebbe noioso per i non addetti ai lavori. Le ho consigliato di operare sempre con un account Google per volta sul browser perché altrimenti il sistema fa pasticci. Clicchi su un invito a partecipare a una lezione che ti è arrivato sulla tua email e Chrome tenta di aprirlo con l’account di tua sorella attivo in un’altra pagina.
Sentivo lei che ripeteva quello che dicevo e il papà – aveva attivato il viva voce – che le rimarcava i passi del processo e la sollecitava a scriversi a penna le password commentando con il suo italiano ancora acerbo. Mi sembrava di assistere alla scena: la famiglia in cucina, il computer sul tavolo, e le cose che piano piano si risolvono.
Alla fine ce l’abbiamo fatta. Ora anche la sorellina potrà ricevere i compiti e seguire le lezioni a distanza della maestra. Non ricordo di essermi mai sentito così utile, anche se è una cosa molto piccola. Sono un sentimentale, che vi devo dire. Ho raccomandato alla ragazzina di memorizzare il mio numero e di chiamarmi nel caso si palesasse qualche altra difficoltà. Al momento di congedarmi, il papà ha preso la scena. Si è avvicinato al telefono e mi ha ringraziato più volte, forse fin troppo per quello che la situazione richiedesse. Mi ha detto grazie nella mia e nella sua lingua mentre fuori c’era il silenzio, la scuola era lontana, il tempo si faceva immobile, l’aria soffiava fresca, la vita scorreva imprevedibile.