Partecipare alla vita sociale, di questi tempi, è una roulette russa, ma se dici di no a un appuntamento fai la figura del paranoico. Ho trascorso la serata a una cena a sorpresa, e la sorpresa non era il Covid-19 che usciva in bikini da una torta, senza contare che non ero il festeggiato. Un’amica ha cambiato numero davanti raggiungendoci nei cinquanta e il marito le ha organizzato una paella con sangria sui Navigli. Il caso ha voluto che il mio posto al tavolo fosse a fianco del cantante di una band indie-rock italiana degli anni 90 e a meno di un metro di distanza. Abbiamo condiviso il palco rotante del concerto del Primo Maggio a Roma nel 96 (non c’era nessuna epidemia in corso e comunque abbiamo suonato in momenti differenti) ma poi loro, grazie a un’identità molto più convincente della nostra, hanno vissuto una carriera più longeva. Quando si incontrano due musicisti quello che c’è intorno sparisce soppiantato da sale prove puzzolenti, birre medie alle quattro del mattino, viaggi interminabili su furgoni malridotti, pagamenti rateali di strumenti messi a rischio da introiti aleatori, esibizioni al cospetto di quattro gatti e cose così. Il timore del contagio è passato quindi in secondo piano al terzo o quarto aneddoto. E pensare che, poche ore prima, avevo insistito per tenermi alla larga dalle colleghe durante una sessione di programmazione didattica a scuola. C’è una parte molto realista della scuola che pensa che, a questo punto, se ne riparli a settembre. Ma c’è anche una nutrita compagine di insegnanti che sostiene che le misure di prevenzione siano sovradimensionate e ti prendono in giro se proponi una videoconferenza al posto di una riunione di persona. Gli scienziati consigliano caldamente di stare in casa e io, non essendo scienziato, faccio quello che mi dicono.