[questo articolo è uscito su Loudd.it]
I Tame Impala suonano un genere a sé. Una posizione di prestigio che ha due chiavi di lettura: Kevin Parker ha davvero inventato uno stile che fa scuola oppure ha passato all’estrattore tutta la musica degli ultimi trent’anni dando vita a uno stile talmente evocativo da contenere l’essenza di tutti gli altri e, anche a un ascolto superficiale, ognuno noi è messo nelle condizioni di trovare un messaggio subliminale di quello che ha dentro, un po’ come la leggenda metropolitana dei frame porno o satanisti tra le scene dei cartoni Disney che ti fanno venire voglia di tette alla fine di “Bianca e Bernie”.
La storia della cover tratta da “Currents” copiata poi tale e quale da Rihanna la conosciamo tutti e rende l’idea del successo trasversale ottenuto dallo scorso album, nominato persino ai Grammy. Se possibile, “The Slow Rush” è un disco ancora più azzimato e barocco, un suono che per semplificare – o da quello che sappiamo dalle autocertificazioni presentate dall’autore stesso – riconduciamo all’art-rock psichedelico, come tutte le cose che non capiamo e che immaginiamo frutto di una mente dedita a perdere tempo speculando su quello che si può spiare sbirciando dagli spiragli delle porte della percezione che qualcuno ha lasciato socchiuse.
Se, quindi, con Kevin Parker vale tutto, “The Slow Rush” è una lenta corsa contro il tempo appesantita da alcuni fattori che portano il progetto Tame Impala ancora più distante dal guizzo di encomiabile ruvidezza stoner di “Innerspeaker”. Nel nuovo album c’è tutto il tempo per sorseggiare aperitivi degustando gli avanzi al buffet, ma il fatto è che se vi eravate lasciati ingolosire, qualche mese fa, dal singolo che ha preceduto l’album, “It Might Be Time”, dalla sua citazione di piano di “The Logical Song” dei Supertramp, dalla bizzarra quanto asimmetrica struttura, dal suono di rullante con quell’effetto che non ha eguali in natura e da quelle note di Moog trascinate all’estremo grazie al glissato, il rischio alla fine è quello di lasciare più di un avanzo nel piatto e fuggire dal locale.
Non ci si può sottrarre a un accostamento con tutti gli esperimenti di pop-prog elettronico derivativo e retro che si sono succeduti negli ultimi decenni e che hanno contribuito a mescolare i Rockets con gli Yes, i Rush con i Queen, Giorgio Moroder con gli Sweet o i Secret Service, a partire dagli Air, i Phoenix fino ai Daft Punk. Kevin Parker, in studio poco più che una one-man band con l’aggravante del timbro ossessivamente in falsetto, aggiunge il valore del suo brand, il marchio di fabbrica che candida già da ora “The Slow Rush” a disco dell’anno e se non volete perdere il carro del vincitore spicciatevi a far valere, a partire da oggi, il vostro diritto di prelazione.
A onor del vero, il lavoro che si intravede sotto le tonnellate di suoni distribuiti tra le numerose parti che si alternano a definire le canzoni del disco risulta sicuramente frutto di una minuziosa ricerca, un vero e proprio viagra per qualunque appassionato di synth, e questo va riconosciuto.
Mentre l’attacco di “Instant Destiny” vi manderà in corto circuito nel tentativo di pensare che cosa vi ricorda, “Borderline” ha tutte le carte in regola per diventare una hit mondiale e far gola a qualche altra popstar in quota Coachella, e il raffinato funk di “Breath Deeper”, con il suo piano dance, non è da meno. Geniale anche il richiamo a Harry Nilsson e alla sua “Everybody’s Talkin’” (che da queste parti potrebbe persino passare per una citazione di “Coriandoli su di noi” dei Ricchi e Poveri ma meglio arrendersi alla coincidenza) di “Tomorrow’s Dust”. I rimandi al passato non finiscono qui – d’altronde siamo nel bel mezzo di un concept-album che ha proprio il tempo come protagonista – ed eccoli riaffiorare proprio con “Lost In Yesterday” e, poco dopo, con il tuffo nel prog-glam di “One More Hour”.
Se “The Slow Rush” si proponesse come un onesto e filologico compendio di storia della musica potrebbe assurgere a manifesto di un nuovo movimento di “indietro-nica”, ma l’impressione è che Kevin Parker abbia ben altre ambizioni. Pur riconoscendone la qualità, un’approfondita esperienza d’ascolto restituisce solo un’espressione di pura musica liquida in senso baumaniano, passatemi il termine, un buon album di lounge molto fighetta o poco più.