Ho l’abitudine di impormi di saltare la lettura della cronaca, soprattutto quella nera, sui quotidiani quando compravo i quotidiani e ora sulla loro versione online, per non parlare dei post condivisi sui social. Un po’ mi spiace perché capisco che tra le righe ci sono richieste di aiuto e segnali di allarme di chi ha subito un torto. Poi però penso che non posso più farci niente e che fermarsi a riflettere è un po’ come osservare con le quattro frecce l’incidente che si è consumato sulla carreggiata opposta alla nostra. E che, soprattutto, come individuo il mio margine di tolleranza e di miglioramento nei confronti di certi problemi di massa – in quanto somma di problemi analoghi di milioni di individui come me – è nullo. Posso constatare, posso amareggiarmi, posso indignarmi e vergognarmi, ma solo contro il fenomeno in sé e non certo nei confronti del singolo caso. E credo proprio che non si tratti di egoismo perché invece molte delle cose che succedono alle persone innocenti mi fanno girare i coglioni. Ma delle vicende umane e personali delle vittime e di chi ha commesso il reato preferisco rimanerne all’oscuro. Il mio pregiudizio assume poi i toni del rigetto nei confronti di certi programmi che vanno molto di moda oggi. Trasmissioni di inchiesta in cui si va a scavare negli animi della povera gente, dei deprivati sociali, delle persone al margine, degli ultimi degli ultimi, con l’unico obiettivo di spettacolarizzarne l’inadeguatezza alla contemporaneità mascherato da pacca di solidarietà sulla spalla. C’è uno di questi programmi che è condotto da un giornalista pelato con gli occhi come fessure che si mette a pochi centimetri dalla faccia di chi racconta la propria sofferenza. Una vicinanza fisica equivocata per vicinanza di sentimento sia dal pubblico che da chi si sottopone al servizio e che induce il malcapitato sotto i riflettori a liberarsi del malessere di fronte alla telecamere. A me questa confidenza tra intervistatore e intervistato in un gioco delle parti vantaggioso per entrambi e in uno scambio di segreti visibile solo a centinaia di migliaia di telespettatori mette fortemente a disagio. Qualche giorno fa c’era un uomo, una specie di avanzo di galera pronto a condividere la sua redenzione in cambio della notorietà televisiva, che teneva la scena con una vistosa sciarpa al collo del tutto avulsa dall’abbigliamento sfoggiato. Quella sciarpa al collo trasmetteva proprio l’idea di essere stata aggiunta dalla produzione all’outfit da intervista in extremis per nascondere qualcosa. Era di un tessuto diverso dal resto e anche la misura lasciava a desiderare. L’intervistato continuava a sistemarsela intorno alla gola, era evidente che non aveva scelto lui di indossarla e che non si trovasse a suo agio. Fino a quando poi, per una manciata di frame probabilmente sfuggiti in fase di montaggio, la sciarpa, scostandosi di poco, ha svelato una svastica nera tatuata proprio sopra la clavicola. Non so voi, ma io uno con una svastica tatuata sotto il collo non solo non lo passerei in tv, ma nemmeno mi verrebbe voglia di fargli delle domande. Ecco, a leggere o veder in tv la cronaca si corre il rischio di conoscere certe realtà che sono opposte alle nostre e a me, se ve la devo dire tutta, proprio non interessa.
Plus, sono sempre io… me lo ritrovi quell’articolo che scrivesti anni fa sulla scelta dei nomi? L’ho riperso e sai che ogni tanto mi viene voglia di rileggerlo!
Grazie..nut
Ciao Manuela, eccolo qui
https://www.plus1gmt.it/2012/05/19/a-scatola-chiusa/
ho conservato l’email che mi avevi inviato, e ho fatto bene 🙂
Un abbraccio
Ahah! Grazie!
Ho letto di grandi cambiamenti!
Un abbraccio a te.