Il giorno in cui mi è esploso per la prima volta il rock dentro io me lo ricordo benissimo. Avevo poco più di sei anni, era il duemila e venti, facevo la prima elementare e c’era stata una specie di epidemia di febbre e tosse per cui eravamo in dieci in classe. Nell’intervallo lungo dopo la mensa non sapevamo più a cosa giocare e il maestro aveva fatto il gioco del dj. A turno, ognuno di noi poteva scegliere una canzone da ascoltare tutti insieme. Potevamo scegliere qualsiasi cosa, l’importante è che non ci fossero parolacce in italiano. Il maestro, che nel digitale era un vero mago, aveva persino allestito sul computer una specie di ruota della fortuna con tutti i nostri nomi da far girare per il sorteggio. Quel giorno la scaletta, vista a posteriori, era stata vergognosa: il gatto puzzolone, Calypso di Mahmood, uno dei tanti Rovazzi fino a una improvvisazione senza capo né coda, un brano da tanto al mucchio con un solo di sax infinito. Avevamo finito il giro, cioè tutti avevano fatto la loro proposta, ma Alice, quella che quindici anni dopo avremmo battezzato Barbie Suora Laica e che già quel giorno stesso, ironia della sorte, aveva trovato in classe un mocassino marrone riconducibile alla celebre pin up in plastica della Mattel, aveva chiesto al maestro di scegliere qualcosa lui.
Il maestro avrebbe potuto agire di impulso per marcare la differenza con i suoi gusti mettendo i Cure, o i Joy Division, i Talking Heads, persino “Another Brick in the Wall” o un riempipista come “Slow Hands” degli Interpol. Invece – ma questo me lo ha confessato solo anni dopo – malgrado si trovasse in uno stato influenzale preoccupante (era fuori di testa, veniva pure con la febbre alta perché diceva che si sarebbe sentito in colpa nel caso avessero diviso la classe), è riuscito a concentrarsi qualche secondo per individuare il brano che più di ogni altro potesse costituire la sintesi del rock’n’roll. Quindi, senza troppi indugi, ha avviato Youtube e ha messo questo.