Da quando ho visto l’ultimo film di Ken Loach osservo con occhio più critico il furgone che porta la spesa dell’Esselunga e, vi giuro, non c’è niente di personale. Lo incrocio spesso parcheggiato con due ruote sul marciapiede di fronte al cancello del maxi-condominio davanti a casa mia quando esco la sera per andare in palestra e, se prima mi faceva riflettere sul fatto che dev’essere una bella comodità quella di smistare prodotti tra frigo e dispensa come unica fatica legata all’approvvigionamento, ora penso la stessa identica cosa. Solo che anziché legare il fatto di non aver mai provato il servizio “Clicca e vai” – o come si chiama ora – al sovrapprezzo per chi ci mette la roba nei sacchetti, faccio l’ipocrita anteponendo valori di sostenibilità, rispetto per il lavoro ed ecologia.
D’altronde lo sapete meglio di me. Il rovescio della medaglia della digitalizzazione degli acquisti va ricondotto alla iper-materializzazione dei consumi derivanti dall’ultima fase dell’esperienza dello shopping online, quando cioè i beni che compriamo ci vengono recapitati. Un fenomeno da cui derivano conseguenze ben note e condivise: ispanofoni che lavorano a cottimo sfrecciando in lungo e in largo con il loro camioncino con l’obiettivo di chiudere il massimo numero di consegne nel minor tempo possibile, aumento esponenziale del traffico furgonistico, passatemi il termine, impatto sull’ambiente per i conseguenti consumi di carburante, magazzinieri costretti a condizioni d’altri tempi, crollo delle vendite al dettaglio e impoverimento dell’offerta commerciale dei centri abitati, per non parlare di quelli che ti portano il sushi in bicicletta a qualsiasi ora del giorno e della notte, con il caldo e con il freddo, con la neve o durante la canicola. Il tutto, nel migliore dei casi, gestito da un algoritmo. Nel peggiore da gente senza scrupoli che dà la colpa all’algoritmo. Insomma, non è poca roba.
Al termine della proiezione ho raccolto qualche reazione a caldo di “Sorry We Missed You”. Una spettatrice mai vista né conosciuta andava dicendo a chiunque fosse in fila all’uscita che non è possibile che le cose costino così poco, e se il prezzo è troppo basso c’è qualcosa che non va in un anello della filiera. Per il resto ognuno giustificava il proprio tenore di ordini su Amazon, che poi il tallone di Achille di tutti sta proprio lì. Non vi sto a suggerire quale sia il modo giusto per usarlo, se per comprare solo cose che non si trovano in giro o per le offerte vantaggiose di elettronica o altro. Io però credo che è un modello da cui non torneremo più indietro, come il riscaldamento globale non si risolverà o nessuno di noi di botto la finirà di craccare le tv o le app per ascoltare la musica in streaming per mettere al sicuro, nell’ordine, i figli dei nostri figli e l’industria culturale.
A proposito: non so se avete letto, qualche giorno fa, della storica libreria Paravia di Torino che ha chiuso i battenti proprio a causa del colosso mondiale dell’e-commerce. Sarebbe bello sapere, se non esistessero gli e-store, l’entità del business delle librerie di una volta, in un’Italia in cui ci sono più scrittori che lettori, sui mezzi pubblici vedi solo gente che guarda le figure di Instagram e le biblioteche servono percentuali irrisorie di cittadini. Ecco, io credo di essere realista a immaginare il futuro così: un posto in cui ci facciamo portare tutto a casa e non usciamo perché siamo al completo di esperienze digitali, l’aria è irrespirabile, fa un caldo porco mentre in sala sul divano c’è l’aria condizionata che, peraltro, dà man forte con i propri scarichi a quelli dei furgoni degli ispanofoni e il mondo è comandato dalla lobby dei portinai, attivi e al nostro servizio 24x7x365 e che un loro sciopero è in grado di bloccare tutto, altro che i macchinisti delle FS.