Ci rendiamo conto che siamo troppi quando trascorriamo una serata in uno di quei posti dove si mangia e si beve ma pensati e allestiti per ospitare grandi tavolate. Non è che siano un’esclusiva a scapito delle quantità ridotte di amici. Il fatto è che se siete in pochi, per esempio due o tre coppie che cercano un po’ di intimità per fare quattro chiacchiere davanti a un bicchiere, la pratica di questi capannoni del divertimento è sconsigliatissima. I megaspazi del food&drink sono soggetti infatti a un livello di inquinamento acustico dovuto alla convivialità massificata degli avventori che, al confronto, la mensa gremita della scuola primaria in cui lavoro è la biblioteca di un monastero ai tempi di Adso da Melk. Quando entri e prendi posto non ti rendi subito conto del frastuono, o probabilmente arrivi quando solo una piccola parte delle centinaia di posti disponibili è occupata. Fino a quando, a un certo punto, come se qualcuno collegasse uno spinotto in un amplificatore da milioni di watt, non si trova uno sgabello libero, la densità abitativa del locale è al culmine, ogni avventore ha un boccale da litro davanti e un cestino con un hamburger immerso nelle patatine, e l’aria si satura del boato della folla. A quel punto ognuno cerca di continuare la conversazione con chi occupa il proprio tavolo ma è chiaro che riuscire a farsi ascoltare a chi è seduto di fronte inizia a diventare un’impresa impossibile. Il caos raggiunge così il culmine. Si alza la voce, tutti alzano la voce, la musica prima diffusa diventa un fastidioso ronzio, e così ci si ritira a conversare urlando direttamente nell’orecchio rivolto verso di noi di chi abbiamo a fianco. Estendere il raggio di confronto risulta impossibile.
Su questa bolgia infernale poi i gestori dei capannoni del divertimento – nell’hinterland milanese ce ne sono a iosa – innestano una variabile di intrattenimento. Nel peggiore dei casi c’è un gruppo che suona musica di merda. Nel peggiore (il concetto di migliore è fuori luogo), invece, c’è un animatore che coinvolge le centinaia di clienti – ora alla seconda birra e al secondo hamburger – al gioco del quizzone. Ogni tavolata compone una squadra che viene dotata di una pulsantiera wi-fi, sugli schermi che prima trasmettevano una partita di calcio a caso si visualizzano delle domande di argomento vario, il pubblico per rispondere deve premere un tasto della pulsantiera più velocemente degli altri (ovviamente cercando di dare la risposta giusta) per scalare le classifiche che, mano a mano, aizzano lo spirito competitivo delle squadre.
L’animatore – in genere uno speaker di una dei millemila network radiofonici commerciali – gira per le tavolate (ora alla terza birra e al terzo hamburger) per rinfocolare gli entusiasmi. C’è persino un momento in cui lancia la sfida senza ritorno: le tavolate devono urlare il più possibile al microfono di cui la pulsantiera è dotata. Vince chi grida con più veemenza. In quel momento il mio consiglio è quello di darvela a gambe levate, a costo di lasciare la quarta birra e il quarto hamburger. Precipitatevi alla cassa, pagate il vostro – eviterete così l’impietosa divisione del totale a cui i capannoni del divertimento vi costringono normalizzando ogni differenza tra chi ha preso ostriche e champagne e chi un trancio di pizza e una piccola chiara – e scappate il più lontano possibile.
Fuori troverete i tamarri che emettono vapori profumati con la sigaretta elettronica e il silenzio della periferia a mezzanotte. Salite in macchina, mettete qualcosa di riparatorio per le orecchie che vi sanguinano, e rientrate dalle vostre famiglie, giurando alla divinità che preferite che non accetterete mai più un invito per trascorrere una serata in un posto così.