Qualcuno dovrebbe chiedere a Battiato che cosa intenda per “finto rock”, prima che sia troppo tardi. Una definizione ermetica e soggettiva intorno alla quale ciascuno di noi, a partire dal 1981, ha fornito una interpretazione tutt’altro che disinteressata. D’altronde, capire Battiato è stata una delle sfide più ambiziose degli ascoltatori italiani, fan e meno in linea con l’artista siciliano, e dei critici musicali. Una complessità sottintesa persino dai Bluvertigo nelle rime de “L’assenzio”. Il suo stesso scetticismo nei confronti della new wave italiana aveva, peraltro, aumentato le fila dei detrattori in quello scorcio di era post-punk che aveva visto la luce, dalle nostre parti, nei primi anni ottanta. E il paradosso è che la presenza della new wave italiana, in quella blacklist, venisse proprio da lui e in un disco che, alle sonorità in questione, era sicuramente più vicino di molti altri artisti che auto-dichiaravano la loro appartenenza.
Il fatto è che se i varietà della tv pubblica e commerciale dei primissimi anni ottanta vi sembrano bizzarri e sopra le righe, provate a immaginare l’effetto della presenza, nei programmi musicali dell’epoca, di un personaggio eccentrico e non convenzionale come Franco Battiato. Nell’autunno del 1981 non era facile sfuggire ai passaggi promozionali, in trasmissioni come Discoring, di “Bandiera bianca”, il primo singolo tratto da quello che diventerà il più significativo album di musica italiana di tutti i tempi, “La voce del padrone”.
Battiato, con un look fintamente ordinario e occhiali da sole (in grado di conferire più carisma e sintomatico mistero sempre e comunque) ripreso a lanciare i suoi anatemi da un podio con tanto di megafono e a invocare una resa incondizionata a una società alla deriva già allora. Gli fa eco intorno il coro dei Madrigalisti di Milano con la divisa delle grandi occasioni, in un contesto musicale nazionale che, non dimentichiamocelo, quell’anno era caratterizzato da vette di trasgressione del calibro di “Sarà perchè ti amo” dei Ricchi e Poveri, “Maledetta primavera” di Loretta Goggi, “Gioca Jouer” di Claudio Cecchetto e “Cicale” di Heather Parisi.
Da “Bandiera bianca” al primo posto in classifica de “La voce del padrone” passano almeno sei mesi, e quello è stato solo l’inizio. Da maggio a ottobre del 1982 l’album mantiene il primato di disco più venduto in Italia, per non parlare del tempo totale di permanenza nella hit parade, prima e dopo. La chiave di lettura di questo dato è che il successo a caldo e a freddo della svolta commerciale – molto tra virgolette – di Battiato è durato oltre un anno. Una statistica paradossalmente insignificante, se paragonata alla risonanza che i brani di quel disco avranno nella cultura e nella società italiana a partire da allora.
Visto da qui, e a maggior ragione in tempi in cui lo stillicidio di notizie poco rassicuranti sullo stato di salute del Maestro tiene la folla dei suoi adepti sulle spine, a stento si riesce a intendere “La voce del padrone” diversamente da una raccolta di successi indimenticabili, più che a un album vero e proprio.
Il ricordo confuso nel passato – ormai remoto – del lungo periodo a cui siamo rimasti esposti alla diffusione massiva dei brani in esso contenuti trasmette l’idea di un insieme di composizioni pensate come colonna sonora delle stagioni che si sono susseguite nel corso di quei quasi due anni e a partire dall’estate dell’82, che non è passata alla storia solo per i mondiali e l’urlo liberatorio di Tardelli dopo il gol contro la Germania, ma per gli echi dei cinema all’aperto che giungevano sino alle spiagge – tutt’altro che metafisiche – su cui, a botte di cento lire a canzone, la selezione di “Summer on a solitary beach” nel juke-box costituiva una tappa obbligatoria per i pomeriggi di sopravvivenza alla canicola, nei bar degli stabilimenti balneari.
E che dire del movimentato uptempo di “Cuccurucucù” e dei testi delle altre canzoni in essa citati, del bellissimo incantesimo di “Sentimiento nuevo”, della geometria esistenziale de “Gli uccelli” e dei pensieri associativi di “Segnali di vita”? L’apparente immediatezza delle canzoni raccolte ne “La voce del padrone”, rispetto alle tracklist di “Patriots” e de “L’era del cinghiale bianco”, è solo una intelligente apertura artistica a trame compositive pensate come lezioni magistrali di pop al pop in sé. “La voce del padrone” è un capolavoro che resterà per sempre una delle vette più alte del finto rock-new wave italiana di tutti i tempi, e di questo Battiato deve farsene una ragione.