Ogni tanto penso a come sarebbe se fossi un insegnante della secondaria di secondo grado. Si tratta di una riflessione in cui mi perdo soprattutto quando varco l’austero portone d’ingresso per incontrare i prof di mia figlia ai ricevimenti e saluto, nell’ordine, il custode della scuola con i mustacchi e la statua dell’autore dei Promessi Sposi che, dall’alto della sua autorità e del materiale con cui è stato ritratto, mi fa sentire giustamente una merda. Non so come sia negli altri istituti ma al liceo i prof hanno proprio le facce da prof e non si capisce se le avevano anche prima oppure è una fisionomia che ti viene a forza di far capire le cose agli adolescenti. Voglio dire, molti dei miei compagni di università poi hanno fatto gli insegnanti – dopo lettere non c’era molta scelta – eppure quando ci devastavamo di Martini a 50 lire al bicchiere al bar della mensa alle dieci del mattino non mi ricordo avessero quello sguardo glaciale che oggi sfoggiano ai genitori quando, in aula colloqui, devono fornire spiegazioni sui voti bassi. Il bello del mio umile ruolo di maestro elementare è proprio che non metto voti. O, meglio, li metto quando è strettamente necessario ma sono in un ordine in cui non è ammessa la bocciatura e prima di dare un’insufficienza devi passare attraverso il dirigente scolastico, i tuoi colleghi, i genitori, il sindaco e il presidente del consiglio. Ma comunque, anche se si potesse, me ne guarderei bene. Faccio l’insegnante per insegnare, mica per demolire l’autostima. Se qualcuno non riesce lo aiuto finché non ce la fa. Se non ce la fa gli preparo qualcos’altro. E credo che tutti meritino di crescere con una speranza, anche solo per stare otto ore in classe ad ascoltare gente come me e ad aspettare che si faccia qualcosa di pratico. Ballare. Fare gli esercizi sulla LIM. Contare cose che possono toccare. Correre in bagno in sella a motociclette invisibili. Usare in classe i giochi che si sono portati da casa. Disegnare. Quando incontro i prof di mia figlia – non tutti, eh – mi sembra però di parlare con persone che abitano in una dimensione distante nello spazio e nel tempo e mi chiedo se poi, a casa, oltrepassino la porta del mondo in cui vivono e lavorano i genitori dei loro studenti come me e – con i loro figli, con le loro mogli, con i loro mariti – riescano ad applicare nella pratica le discipline che devono trasmettere durante le lezioni. Oppure no, hanno poi un metodo diverso per affrontare la gioia, il dolore, il caldo, il freddo, la sete, il prurito, la stanchezza, l’odore di chiuso, le ricette più comuni, la spesa, l’ultimo libro del loro scrittore preferito e tutto il resto. La vita, insomma. A me non sembra di essere diverso, quando sono in classe, ma forse con i bambini piccoli è tutto più facile.