Gli addetti ai lavori e i veterani del settore sostengono che i genitori siano il male assoluto della scuola. La mia natura mi impone di evitare i conflitti quindi, al momento, non ho aneddoti cruenti da raccontare circa il modo di vivere l’esperienza scolastica dell’anello debole degli stakeholder del mio lavoro con cui ho a che fare.
L’esser stato prima genitore che insegnante un po’ aiuta. Se offro un servizio, customer care e customer satisfaction sono la base di ogni relazione commerciale. Il fatto che a lasciare i propri figli otto ore al giorno in balia della didattica non ci si possa sottrarre e, conseguentemente, si ribaltino le dinamiche tra chi offre il servizio e chi ne usufruisce, non deve trasmettere al docente la sensazione di inviolabilità da monopolio. Dopo le prime assemblee di classe dello scorso mercoledì ho sentito di veri e propri ammutinamenti di genitori, guidati da temerari rappresentanti, nei confronti di colleghe. “Se non vi va bene il mio metodo andate a lamentarvi con la preside!”, dicono abbia sostenuto la docente che straccia le pagine con gli errori e lancia i quaderni in classe, forte di un pregresso professionale in una realtà montessoriana del centro ben diversa dal mio plesso di provincia.
Della mia classe, all’assemblea di inizio ciclo ho avuto una percentuale di presenze niente male, più del 70%. Tenete conto che in prima l’entusiasmo di tutti è al top. Chiaro che si sono fermati per i colloqui individuali solo i genitori dei bambini che non ne hanno bisogno, ma è sempre così. Nelle famiglie in cui c’è attenzione i figli crescono senza problemi. Poi diventano adolescenti teste di cazzo comunque, ve lo dico per esperienza personale, ma questa è un’altra questione.
Peccato che mancassero quattro degli stranieri (su cinque) che ho in classe. Peccato perché i bambini sono nati in Italia, parlano benissimo la nostra lingua e sono ben integrati con il gruppo. La mia collega sostiene che non sia tanto una questione di mancanza di interesse quanto di questioni pratico-organizzative. Si tratta di nuclei famigliari con millemila figli a cui badare e padri e madri che difficilmente riescono a staccarsi da attività senza orario o dal ménage domestico.
A quelli che si sono presentati ho cercato in tutti i modi di trasmettere loro l’attenzione che rivolgo ai loro figli, che poi sono il core business della mia attività. Quando uscivo dai ricevimenti degli insegnanti che ha avuto mia figlia nel migliore dei casi mi sentivo insoddisfatto. Nel peggiore provavo risentimento per i discorsi generali sulla classe su cui si dilungavano come se mia figlia fosse un di cui, non considerando invece che, degli altri, a me non importava nulla come agli altri ero certo non fregasse niente di mia figlia. Madri e padri vogliono solo avere la certezza che il talento (qualunque esso sia) e le competenze del loro rampollo vengano alla luce (ah, la maieutica) e messe al sicuro dal docente in una botte di ferro per un futuro di successo. Io poi, che vengo dal marketing con l’aggravante di essere una persona sensibile, ci metto il resto, conducendo i miei clienti – lasciatemi continuare la metafora – giù nel profondo della sfera personale. Mia, loro e del loro bambino.
I genitori così tornano a casa con il pieno di emozioni e di sogni per il futuro, proprio come avrei voluto sentirmi io. Ma non racconto balle, giuro. Cerco solo di comunicare i frutti del mio lavoro dal mio punto di vista, gli stessi che loro vedono crescere e maturare nei loro figli giorno dopo giorno. Tutte cose che non vedo perché si debbano tacere. Non c’è motivo: non bisogna aver paura di soddisfare le persone.