Finire un libro è come quando ti cresce qualcosa dentro e poi, per forza di cose, te ne devi liberare e sta alla vostra finezza definire il secondo termine della metafora. Più la storia è corposa, più il distacco è traumatico. Ieri ho terminato il monumentale “Il sussurro del mondo” di Richard Powers e, vi assicuro, ho vissuto un vero e proprio travaglio che mi ha lasciato leggero nel corpo ma pesante nella testa. Mi sono chiesto da dove nasca il bisogno nell’uomo di leggere, ma anche di scrivere, tutte queste storie inventate e se un giorno la letteratura avrà un suo scopo. In un celebre episodio di un serie tv di fantascienza, una civiltà di stanza in un altro universo si metteva in contatto con noi dopo aver visto e letto tutti i film e tutti i libri prodotti dal genere umano, pensando che utilizzare modalità di comunicazione alle quali siamo abituati potesse rendere meno traumatico l’incontro con una specie extraterrestre ma equivocando il fatto che le storie descritte fossero vere e che, quindi, rappresentare situazioni alle quali l’uomo potesse essere abituato consentisse loro un più veloce processo di integrazione. Gli alieni così arrivavano sulla terra suonando le note di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, si nutrivano di schifezze come i “Visitors” e lanciavano monoliti neri come se piovesse, tanto per iniziare. Agli umani veniva un coccolone e, nel giro di qualche giorno, sulla terra non c’era più anima viva grazie alle trovate di questa specie di esercito situazionista venuto da chissà dove. Per fortuna anche questa, come tutte le storie dei libri e dei film, è pura invenzione. Il senso di tutto ciò è che trascorriamo gran parte della vita immersi in dimensioni che non esistono. Va bene, mi direte, ma che c’entra l’Inghilterra del titolo? Niente. Ho visto una foto scattata ieri a Londra. Pioveva, tirava vento e c’era un ombrello rotto abbandonato in una via del centro. Sullo sfondo un paio di quelle cose che ti fanno capire subito che è Londra. Mi sono immerso nella foto cercando un po’ di conforto perché qui, in Sardegna, fa molto molto caldo e una foto, a suo modo, racconta una storia che non c’è.