Le popstar che hanno aggiunto il valore del travestimento alla loro musica, elevandosi alla dimensione astratta del personaggio dello spettacolo, sono un prodotto che oggi si ravvisa sempre meno. Negli anni settanta e ottanta, al contrario, più eccentrica era la carnevalata e più la casa discografica accumulava proventi. Il pubblico era molto più ingenuo e la canzone pop costituiva ancora un aspetto determinante nell’immaginario collettivo. Dev’essere questo fattore grazie al quale i costumi e il balletto che si accompagnano a un pezzo come “YMCA” dei Village People sono, ancora oggi, ciò che più di ogni altra cosa riconduciamo all’idea di festa, di divertimento, di ballo eseguito in gruppo come celebrazione della danza collettiva. Non è difficile sentire nalla radio o alla tele “YMCA” almeno una volta al giorno e in qualunque situazione danzereccia dozzinale capiterete potete stare certi del suo posto centrale nella selezione del dj. Sono diversi, infatti i punti di forza che rendono unica, nel bene e nel male, questa canzone, a partire dagli anni d’oro della dance fino l’iconicità gay dei cantanti e tutti gli aspetti socio-culturali che ne conseguono. Non per questo siamo tenuti a non manifestare il nostro disappunto a ogni cazzo di volta in cui ne siamo esposti all’ascolto. Nel villaggio turistico a fianco del campeggio in cui sto trascorrendo le vacanze al mare “YMCA” la mettono in spiaggia puntualmente alle cinque del pomeriggio come sigla di apertura dell’animazione e, di sera, nella versione dei Minions durante la cosiddetta baby dance, una immeritata sovraesposizione che mi ha indotto a desiderare di essere così ricco da poter assumere tutti gli animatori del mondo al doppio dello stipendio che ricevono dai club vacanze per farli stare a casa loro ad ascoltare e ballare, otto ore al giorno, “YMCA” dei Village People.