Non ricordo con che nome sia stata immessa in commercio né chi gliel’avesse regalata, ma so che proveniva da un negozio di Altromercato. Era fatta pressoché di pezza come tutti i giocattoli poveri, equi e solidali, e forse era proprio la materia prima che aveva innescato tra quella bambola e mia figlia – avrà avuto quattro o cinque anni – un amore a prima vista. Certo, l’uso che ne faceva forse non era dei più propri. Il suo gioco preferito era lanciarla in aria e riprenderla, gesti a posteriori riconducibili ai primi sentori della sua successiva carriera pallavolistica.
Comunque mia figlia e quella bambola erano diventate inseparabili fino a quando ci è caduta durante una scampagnata. Lo sapete come funziona: ci sono sempre decine di cose da raccogliere in fretta e furia quando si esce con i bambini, fatto sta che, al ritorno a casa, della bambola non c’era traccia. Sapete anche come sono i genitori del duemila: tempo qualche ora e il papà ne aveva recuperata un’altra identica con un discreto dispendio di energie per setacciare palmo a palmo i magazzini delle botteghe eque e solidali del milanese. Cosa non fanno i genitori per limitare il dolore delle loro creature.
In effetti mia figlia non aveva dato peso all’assenza (l’escamotage dev’essere stato dirle “L’abbiamo lasciata in macchina, dopo scendo a prendertela” o qualcosa del genere) e nemmeno aveva colto la differenza di morbidezza con la bambola uguale nuova acquistata a rimedio della sparizione, malgrado io fossi convinto del contrario scottato da quell’episodio di “Tre nipoti e un maggiordomo” in cui uno dei due piccoletti aveva smarrito una bambola e il padre aveva addirittura ingaggiato un investigatore privato per trovarla. Per risolvere la questione qualcuno aveva acquistato un modello identico a quello smarrito ma Buffy o Jody (non ricordo chi dei due, ma non mi sembra si trattasse della signorina Beasley, piuttosto un pupazzo vestito da spaventapasseri di Jody) aveva capito dopo il primo abbraccio che si trattava di un piano per prenderlo per il naso.
Tornando a noi, e per farvi capire il peso che i bambini danno alle cose, qualche mese dopo mia figlia aveva barattato con una sua compagna della scuola materna (mostrando un cuore di pietra) la sua bambola – la cui sopravvivenza nella sua vita mi era costata così tanta fatica – per uno squallido e dozzinale pupazzo di Scooby-Doo conciato come Mago Merlino. Ho conservato i recapiti delle nuova proprietaria e giuro che prima o poi me la farò restituire.
E mi è tornata in mente tutta questa storia ieri pomeriggio, durante la visione di “Toy Story 4” su un sito di streaming pirata. Il primo episodio della serie risale al 1995, e dopo quattro film è più che lampante che, chi ha inventato la storia, ha subito un trauma da piccolo per la perdita del giocattolo del cuore. Il problema è capire se il vero valore di cose come i giochi siamo noi genitori ad attribuirlo a fronte di quella forma di ingenuo cinismo con il quale i bambini se la menano ampiamente meno di noi con il senso di colpa verso le persone, figuriamoci verso le cose, e non ci pensano due volte a disfarsene quando non sono più di loro gradimento. Dare un’anima e una voce (a proposito, il quarto Toy Story è il primo senza Fabrizio Frizzi nel timbro di Woody) ai giocattoli ingigantisce – nemmeno se ne sentisse il bisogno – la gamma di soggetti per i quali soffrire. Dopo i nostri cari, gli animali, ora ci toccano anche gli oggetti. Per questo sgabuzzini, soffitte e box traboccano di cose, vestitini e passatempi utilizzati dai figli quando erano piccoli, una raccolta compulsiva a insaputa, spesso, dei figli stessi. La responsabilità di questo controproducente attaccamento alle cose è tutta nostra e se avete la fortuna di accompagnarvi a un partner che, invece, non si fa problemi a sgomberarvi la vita dal passato, potete ritenervi fortunati e sicuri di procedere verso la terza età nel migliore dei modi.
Questa volta, però, nel film le cose vanno diversamente e, se non avete ancora visto “Toy Story 4”, meglio chiudiate questo articolo e leggiate qualcos’altro. Le cose finalmente cambiano anche per i giocattoli e, probabilmente, chi si è occupato della sceneggiatura, vuoi perché dopo venticinque anni avrà finalmente risolto i problemi con la sua infanzia, al quarto film si dev’essere stufato del fatto che il lieto fine sia per forza quello con tutti i giocattoli insieme e sempre insieme, non uno di meno. Anzi, con la famiglia di giochi arricchita di qualche new entry che tanto, nei sentimenti, c’è sempre posto. Questa volta Woody preferisce l’amore e l’indipendenza rispetto alla sicurezza della cameretta e dell’affetto di un bambino che poi, appena assaggiato l’effetto di certi ormoni che sappiamo, siamo certi non si farà alcun problema a sbarazzarsi della propria infanzia.
E oltre agli autori e al destino del pupazzo-cowboy, alla fine del film anche per me è cambiato qualcosa. Mia figlia è adolescente ed è fuori dal tunnel dei cartoni animati. Ai ricordi dei Toy Story passati, visti con lei piccola, si è aggiunta questa nuova chiave di lettura: ogni epoca, ogni fase, ogni momento, è legato a qualcosa che favorisce la trasposizione dello stato d’animo che ne è scaturito. Questi supporti ispirano conforto e danno la sicurezza di custodire per sempre i frammenti della nostra vita. Giocattoli, bambole e anche film a cartoni animati. Per i bambini si tratta di cose transitorie, grazie alla loro memoria in fieri. Per gli adulti si tratta solo di ingombri perché è sufficiente mantenere quell’alone dell’esperienza vissuta che resta in noi a far parte del nostro carattere e che da allora ci portiamo dentro e lo faremo per sempre come se ne avessimo colto l’essenza, che poi è quello che basta e avanza e che possiamo dare agli altri senza necessariamente qualcosa in cambio o qualcosa dello stesso valore come fanno i bambini quando barattano i loro giocattoli preferiti.
“Mia figlia è adolescente ed è fuori dal tunnel…”
maccomunque non buttare nulla che presto arriveranno i nipotini.