[Questo articolo è uscito su Loudd.it]
Le canzoni estive che presentano una nota di malinconia, rispetto a quelle dichiaratamente solari o che emanano spregiudicatezza in eccesso, alla fine risultano le più ascoltate. Questo perché la bella stagione tradisce, mischiato tra i profumi delle creme solari, un velo di spleen vaporizzato sui corpi stesi al sole in cui è facile riconoscere la fuggevolezza delle ferie, la transitorietà delle giornate lunghe, la labilità degli amori sul bagnasciuga, l’illusorietà dei ghiaccioli e il fatto che sembra di essere a metà dell’anno in corso ma da agosto a natale, passando per il rientro in ufficio e la ripresa delle scuole, è un attimo.
Quindi se volete tentare il colpaccio con la hit da Festivalbar tenete a mente questo consiglio: mai fare quelli troppo allegri, troppo reggaeton, troppo esagitati con il twerking in costume, la Corona con il limone e i toni mediterranei. Il trucco è vecchio quanto l’uomo: basta mettere un pizzico di modo minore alternato al modo maggiore per nascondere, all’interno dei costanti moniti a seguire il ritmo, a scambiarsi i liquidi con il contatto fisico e a vivere alla giornata, anzi, alla nottata, un messaggio ben chiaro: non è tutto come sembra.
Si tratta di una tesi che ha le sue fondamenta in una best practice tutta italiana, malgrado il titolo. Perché “Vamos a la playa” dei Righeira ha venduto milioni di dischi? Se volete dati certi, chiedetelo a loro. Se vi piacciono le dietrologie un po’ campate in aria, sentite qui.
Pubblicata con l’obiettivo di monopolizzare l’estate del 1983 tanto da risultare seconda, in quanto a posizione nell’hit parade, solo a “I like Chopin” di Gazebo, “Vamos a la playa” è la punta di diamante dell’italo-disco prestato alla canzonetta synth-pop, con l’aggravante del tormentone estivo.
E se “Vamos a la playa” fosse un prodotto fisico sarebbe tutta plastica non riciclabile. È la summa dei suoni artificiali dell’epoca, sintetizzatori sia grassi che slim fit e drum machine, tutti guidati dai sequencer. Matematica allo stato puro. Il tema di tastiera fa a gara per riconoscibilità con i coretti del ritornello ed è eseguito in minore, con il risultato che all’inizio, lasciato solo, appena la canzone sorge dal silenzio, lascia a bocca aperta tanto è malinconica. Quando, dopo otto battute, entra tutto il resto si tira così un sospiro di sollievo: gli accordi a supporto – gli stessi del ritornello – sono maggiori. Meno male. Carichiamo tutto in macchina e partiamo: si può andare alla spiaggia a godere delle vacanze.
Ma c’è un ma, purtroppo. Con la strofa si passa ancora in minore e l’esperienza d’ascolto torna a essere un po’ meno confortevole. C’è qualcosa che non va. Le parole in spagnolo servono per riportare la percentuale di frivolezza agli standard di genere (l’estate è il momento latino per eccellenza), a meno che non se ne capisca il significato: è esplosa una bomba, le radiazioni tingono di blu, il vento radioattivo spettina i capelli ed è meglio tenere il sombrero, i pesci hanno un pessimo odore e l’acqua è fluorescente. Ma che succede? Dove sono le vacanze al mare che ci sono state promesse?
Nel 1983 Chernobyl era ancora tutta intera, dietro la cortina di ferro, e al culmine della guerra fredda il dibattito sul nucleare era nel pieno. Molti giovani ostentavano le spillette “Energia nucleare? No grazie” con il sole rosso che rideva sornione in campo giallo. Ecco, quindi, la vera trama di “Vamos a la playa”. In un 1983 distopico, esposti agli effetti di un disastro atomico senza ritorno, stare al mare non fa mica tanto bene. A rincarare il messaggio, il video della hit da juke-box non lesina certo il pessimismo. La scenetta da bagni attrezzati, partite a tela, salvagenti fantasia e bellezze in costume è tinta con i toni abbaglianti post-impatto, tecnicamente resa come una sorta di luce anti-rughe alla Barbara D’Urso, mentre i due Righeira, in tenuta new wave estiva e utilizzando un avveniristico microfono da polso, avanzano scanzonati e ironici. Una coppia di situazionisti a tempo con i caratteristici quattro quarti a velocità ridotta, tipici della dance tutta italiana dei primi anni ottanta.
Il brano presenta anche qualche colpo da maestro di produzione musicale: il cambio, ancora in minore, con quel glissato di synth finale che lancia l’ennesimo vamos a la playa oh oh-oh oh-oh e ce lo fa sembrare strepitoso come se fosse la prima volta che l’ascoltiamo, e una variante del tema che, verso la conclusione, incalza il finale. Per non parlare delle numerose parti di sintetizzatore che si sovrappongono, roba che gli italiani che attingono agli anni 80 della discomusic autarchica guardano come una lectio magistralis. Non credo di esagerare dicendo che i fratelli La Bionda possano essere considerati i Giorgio Moroder de noantri.
E così, contaminati dalle radiazioni di Michael e Johnson Righeira, nell’estate dell’83 nessuno si è sottratto ai numerosi passaggi televisivi in playback di “Vamos a la playa” che però, avulsa dai colori abbacinanti del videoclip, perdeva la sua filosofia di fondo: in Italia si canta vestiti eleganti anche sotto una tempesta di radiazioni. E di quello che ne è stato del duo torinese siamo tutti a conoscenza: un paio di altre hit, ma non significative e identificative come questa, un guaio giudiziario, la comparsata in casa Subsonica per il brano “La funzione” e, destino comune a tutti i ragazzi famosi negli ottanta, i numerosi tributi degli anni duemila perché è chiaro che, alla luce di come ce la passiamo ora, faremmo carte false per riavere indietro il pentapartito e sdraiarci in costume sotto il sole di allora, pericoloso ma solo a parole, nelle canzoni post-atomiche come questa.