Nella foto, che poi è un selfie nel senso che è fatta con la camera del telefono rivolta verso di sé, Paola e il suo nuovo compagno sorridono ai posti di guida di uno di quei veicoli tra la monovolume e il furgone, di rientro da un paese che, quando Paola ed io lavoravamo insieme, faceva parte del patto di Varsavia. Dietro si scorgono le bici e i bagagli, davanti immaginiamo ci sia un tramonto, un radioso futuro, un po’ di felicità. Paola ed io eravamo legati da una smodata passione per un genere musicale che ora non esiste più e che ci ritrovavamo a ballare – ciascuno con le proprie frequentazioni – in un locale che poi è diventato una libreria mgastore e quindi un negozio di elettronica. Ogni tanto condividevamo anche la scalinata di Palazzo Ducale con un pranzo leggero custodito in un contenitore trasparente dal coperchio colorato, uno di quegli oggetti che io non sono mai riuscito a farli tornare puliti decorosamente prima di possedere una lavastoviglie. C’era stata anche quella volta al negozio con i saldi sotto l’agenzia. Paola si era provata un paio di jeans, io ero lì fuori dal camerino che aspettavo e lei si è cambiata senza nemmeno preoccuparsi di tirare la tenda. Era scalza e ha fatto un giro su se stessa, si è guardata allo specchio e poi si è voltata verso di me, sollevando un po’ la maglietta per controllare se stringessero troppo, e mi ha chiesto se stava bene.