Il fatto è che a quelli del New Romantic, a un certo punto, deve avergli preso un po’ la mano. Giustificati della narrazione di Adam Ant, il cui primato nell’immaginario collettivo circa l’avvenenza dei pirati verrà solo spodestato venti anni più tardi da uno del calibro di bonaggine di Johnny Depp (ricordiamo peraltro che i costumi di scena di “Prince Charming” sono in esposizione permanente al Victoria and Albert Museum di Londra) ogni gruppo, dal punto di vista del look, ha iniziato a fare il cazzo che ha voluto. Non stupisce quindi vedere gli Spandau Ballet nel video di “To Cut a Long Story Short” conciati così, e la gonna di Steve Norman mi sembra l’ultimo dei problemi.
Chi ha seguito le cose sin dai primi anni 80 sa benissimo che il dualismo Duran Duran vs Spandau Ballet, cruento tra le fan per l’iconicità estetica, è stato pressoché inesistente dal punto di vista musicale. Pur superiori dal punto di vista tecnico, gli Spandau Ballet hanno virato verso il pop più commerciale sin da “Diamond”, il secondo album, mentre per la band di Simon Le Bon nel futile quanto evanescente “Seven and the ragged tiger” si percepiva ancora qualche eco del loro passato new wave (tra virgolette e all’acqua di rose, ma comunque dignitosissima) e comunque non vorrei dare il via a un flame. Ognuno si tenga stretta la propria opinione, tanto di quei tempi siamo qui a rimpiangere persino gli Alphaville.
Occorre ammettere però che un pezzo straordinario come “To Cut a Long Story Short” (un equivalente nell’opposta fazione potrebbe essere “Careless Memories” dall’album omonimo, ma ad accostare i brani proprio non c’è storia) ce l’hanno solo Tony Hadley e soci.
Cosa ha di ineguagliabile il primo singolo degli Spandau? È veloce. Ha un loop di synth che dura quanto la lunghezza del pezzo e che vi sfido a trovare qualcosa di simile nella letteratura musicale di tutti i tempi. Ti rimane in testa malgrado non ci sia un vero ritornello dal momento che la strofa, così invadente e con quel riff artificiale sotto, normalizza in eccesso la dinamica del brano e quando subentra il cambio, con il ritmo che si spezza nel pattern di tamburi, l’ascoltatore non vede l’ora di riprendere la marcia serrata, marcata dal sintetizzatore. Tony Hadley canta da dio. Dal vivo il pezzo spacca, anche in tempi non sospetti. Mantiene un approccio rock pur essendo palesemente synth-pop. Vi basta?
Ed è un vero peccato che gli Spandau Ballet, subito dopo, si siano dati alla melensaggine e che proprio quella merda da MTV li abbia resi famosi. Ascoltando “Lifeline”, “Gold”, “I’ll Fly for You”, per non parlare di “Through the barricades”, è difficile riconoscere la stessa band che, in quel primo videoclip, si atteggiava a comparse degne di Braveheart.
In pochi si ricordano delle loro movenze new romantic e dell’attitudine barocca degli esordi, un momento storico in cui per colpire il pubblico era sufficiente trascorrere dal parrucchiere altrettanto tempo di quello passato in sala prove. “To Cut a Long Story Short”, come certi singoli dei nemici Duran Duran, è la prova che nei primi ottanta chi suonava lo faceva anche per divertirsi sperimentando, ma con meno rigore di tutto ciò che c’era stato prima.