[quest’articolo è uscito su Loudd.it]
Lessico famigliare. Heimat, appunto. Ma facciamo un passo indietro. I Delta V sono una delle band più sottovalutate tra quelle nate e cresciute durante il boom della scena alternativa e/o indipendente locale, quella che si è sviluppata negli anni 90, quella dei vari Subsonica, Afterhours e Scisma, per farci capire. Emersi per lo più grazie a un’esigua manciata di revamping di brani della canzone italiana degli anni 70 e 80, pezzi ricondizionati con uno stile inconfondibile che è valso al gruppo un’adeguata risonanza, l’efficacia dei loro remake ha fatto passare però in secondo piano una produzione originale parallela corposa e di qualità sulla quale, forse, si è investito non sufficientemente.
Ecco: questo è l’incipit che avevo pronto nel cassetto (virtuale) dal 2006 o almeno dai postumi di quello che, fino a qualche mese fa, è stato il loro ultimo album ufficiale, nella speranza che prima o poi Carlo Bertotti e Flavio Ferri tornassero insieme in studio, preferibilmente con una delle tre cantanti che si sono avvicendate nella line-up dei Delta V lungo la loro carriera, per rimettersi a fare quello che sanno fare bene.
Senza contare che “Pioggia.Rosso.Acciaio”, il disco dell’addio (ma che se siamo qui si è trattato fortunatamente di un arrivederci) pubblicato tredici anni prima del nuovissimo “Heimat”, è passato poco più che inosservato malgrado costituisse il momento forse più importante nell’evoluzione del gruppo, con il ritorno della primissima vocalist (quella di “Se telefonando”, per intenderci) Francesca Touré e una serie di composizioni originali in grado di bilanciare la portata dirompente della consueta cover di modernariato vintage lanciata come singolo. In quel caso si trattava di “Ritornerai” di Bruno Lauzi, in effetti sin troppo azzardata per un pubblico non sempre a proprio agio fuori dagli schemi consolidati.
E se i Delta V sono stati una delle band più sottovalutate forse è proprio a causa del loro essere difficilmente addomesticabili e inquadrabili. Troppo fighetti e ricercati (a tratti leziosi) per far parte della schiera degli alternativi/indipendenti e troppo riconducibili ai gruppi alternativi/indipendenti per entrare nell’olimpo della melodia all’italiana, in cui comunque la loro ricercatezza sarebbe stata incompresa e il loro essere fighetti sarebbe stato frainteso per snobismo. Ma nulla mi toglie dalla testa la convinzione che la formula stessa del progetto attraverso la quale i Delta V, a ogni disco o al massimo due, si sono avvalsi di una cantante diversa, non sia stata accettata fino in fondo dal nostro mercato, italiano come la gente che lo popola. Nella musica, proprio come nella politica, abbiamo bisogno di identificarci in formazioni definite e capitanate da una figura forte, stabile, riconoscibile e in grado di contenere in sé la semplificazione del contesto di cui costituisce il principale contatto con l’esterno, l’interfaccia con il pubblico.
Ma ora possiamo lasciarci alle spalle il passato. Se avete seguito su Facebook, negli ultimi anni, Ferri e Bertotti, da un certo punto in poi è risultato sempre più chiaro che ci fosse del fermento. Fino a quando è spuntata dal nulla Martina Albertini, o Marti DV (come si firma sul social di Zuckerberg) e da allora è stata solo una questione di mesi, poi settimane, quindi giorni e dopo una manciata di anticipazioni – quasi tutte raccolte nel nuovo lavoro – ecco finalmente il ritorno ufficiale. “Heimat” è il sesto disco dei Delta V, uscito a tredici anni di distanza dal precedente, e Martina Albertini è salita prepotentemente e meritatamente al numero uno delle cantanti più adatte alla musica della band. Lo stile di “Heimat” è infatti in linea con i dischi precedenti ma è chiaro, sin da un rapido ascolto, che la vena compositiva è sensibilmente più cupa e il timbro di Martina, in questo mood, calza a pennello. La speranza è che Marti DV sia la scelta definitiva e che resti in pianta stabile, d’ora in poi e per sempre.
Con “Heimat” torna di moda il background culturale e stilistico che da sempre alimenta l’ispirazione dei Delta V. Un electropop ultra-raffinato nobilitato da un vero compendio della storia dell’elettronica in cui si ritrovano echi delle prime sperimentazioni di sintetizzatore fino al trionfo del suono artificiale degli anni 90 e duemila (gli Air in primis), a cui il trio ha aggiunto l’interpretazione artificiale della realtà alla luce dell’esperienza sonora e degli ascolti moderni e contemporanei che, nel tempo, la band ha assimilato. Sopra, i temi cari ai Delta V resi in liriche profonde ed efficaci: le trame del nostro passato vissute nelle esperienze autobiografiche, il quotidiano trasformato in poesia, l’eccezionale raccontato con le parole di tutti i giorni.
E, come risultato, “Heimat” è un ottimo album, il meglio che si possa produrre quando ci si rimette in gioco. Undici brani al netto della ghost track (in coda al fiume di emozioni di “Disubbidiente”, la traccia conclusiva, e peraltro uno degli episodi migliori del disco) più la cover per dare, comunque, un segnale di continuità con i lavori che l’hanno preceduto. Un segnale forte, considerando che le mine e i battisti qui lasciano il posto ai CCCP di “Io sto bene”.
Ma è tutto il resto che fa la differenza. I singoli pubblicati nei mesi scorsi, come “Domeniche d’agosto” e “Il cielo che cambia colore” con quel tema di sintetizzatore che, in una sequenza distribuita simmetricamente nella successione di accordi, ci riporta ai ricami analogici di “Oxygene” di Jean-Michel Jarre, si alternano a brani tutti da scoprire: la struggente “Disturbano”, la base drum’n’bass de “Gli aeroplani”, il dialogo intimo de “L’inverno e le nuvole”, il trip-hop di “Il mondo brucia” e il macigno dell’avere “30 anni” (che pezzo!) in una società che fa confusione con l’età in cui si diventa adulti. Insomma, cari Delta V, bentornati nei nostri ascolti, bentornati a casa. Heimat, appunto.