Fondamentalmente la scuola ha bisogno di buoni copywriter, magari gente che viene dal marketing e che quando si tratta di riempire pagine e pagine di fumo di certo non si tira indietro. Provate a leggere i vari piani triennali dell’offerta formativa – che nel linguaggio tecnico scolastico si chiamano PTOF – o un qualsiasi atto di indirizzo del dirigente scolastico dell’istituto che frequentano i vostri figli e, a parte il senso di lost in translation che si prova di fronte a un testo redatto in una lingua non di uso comune, risulta evidente che la sfida è quella di arrivare al termine della lettura senza chiedersi: “Ok, va bene. Quindi?”. Il problema della scuola, che poi è lo stesso della pubblica amministrazione, è che a un certo punto la scuola si è sentita in dovere di raccontare le cose che fa. Di comunicare come un’azienda per stare al passo con i tempi, visto che non poteva stare sul mercato. Provate quindi a immaginare il mix tra l’idioma di uso corrente dei funzionari pubblici declinato – come si dice – a scopo divulgativo per narrare processi che non si possono descrivere ma in situazioni in cui, comunque, bisogna produrre qualcosa da sottoporre ai cittadini, se non addirittura per attività di assessment pensate ad hoc per non esserlo.
E provate anche a definire punto per punto un sistema in cui una popolazione di milioni di studenti alle prese con la scuola dell’obbligo è sottoposta a un percorso più o meno lungo di trasformazione. A identificarne l’approccio, la modalità, le strategie e le tecniche, gli interventi sul campo, persino la vision e la mission e gli strumenti per attuarle fino a tutti i criteri per restituire ai diretti interessati un feedback, un ritorno univoco utile a stabilirne la portata in efficacia, un qualcosa che attesti che alla stazione di arrivo sia stato possibile ed evidente riconoscere i frutti del cambiamento e consentire a ciascuna di queste persone nuove di interpretare il futuro con il più completo bagaglio di competenze. Mi spiace, so di deludervi, ma tutto questo è un dato di fatto e, come tale, non è riducibile a parole. Per questo esiste una convenzione sociale secondo cui, a scuola, si danno comunicazioni relative ai singoli studenti e pensate per l’ambiente esterno alla scuola attraverso l’assemblaggio di contenuti pronti all’uso, strutturati e destrutturati secondo variabili riconducibili alla buona volontà di chi li imposta, all’ora in cui sono stati elaborati, a fattori ambientali che vanno dalla temperatura presente nelle classi a che cosa c’era di primo in mensa, o anche alla completa casualità ispiratrice in un momento colto tra miliardi di possibilità in cui avrebbe potuto manifestarsi altrimenti, quando invece sarebbe più edificante lasciarsi andare ai sentimenti di amore (o anche di antipatia, perché no) e preparare piccoli ritratti personali su ogni singolo individuo a cui sono diretti gli sforzi di noi insegnanti. Le passioni, l’impegno, l’entusiasmo, la capacità collaborativa, il rispetto, la volontà, il talento, i momenti facili e quelli delicati, persino il rendimento, la cura di sé, lo slancio per quello che si fa insieme. Pensate che rivoluzione se si riuscisse a dare una risposta a questa richiesta di attenzione individuale.