Uno dei numerosi aspetti positivi del lavorare nella scuola è quello delle supplenze. Sostituire i colleghi nella loro classe (nei casi eccezionali come permessi o malattia) costituisce uno dei pochi fattori che rendono il mestiere dell’insegnante (almeno nella scuola primaria) simile a quello che facevo prima. Le ore di supplenza sono attività a progetto di breve durata in cui si può concentrare in prestazioni spot il meglio che si sa fare e poi, a consegna avvenuta, cioè al suono della campanella, tanti saluti. Questo approccio risulta un’anomalia in un sistema in cui si tende giustamente al progetto didattico a lungo corso, volto alla conduzione pluriennale degli alunni verso l’acquisizione delle competenze. Un percorso che, per i docenti, comporta la profusione di un committment (come si dice nel marketing) costante e senza tregua che poi è la vera cartina tornasole per distinguere gli insegnanti bravi da quelli che mirano allo stipendio o a sbarcare il lunario professionale. Per una volta, invece, con la supplenza va in onda uno show come ai vecchi tempi. Ci si concentra sull’argomento di cui il docente assente ha lasciato indicazioni o, in caso non ci sia stato il tempo, si improvvisa, si va di esperienza in base alla classe ospitante e poi, come accade in certi altri mestieri come quello che svolgevo in precedenza, decade la competenza e saranno altri a riprenderne le fila.
Vado sempre con piacere a fare supplenza nella quinta di una delle mie colleghe preferite perché si tratta di una classe invidiabile, frutto di un lavoro eccellente iniziato sin dalla prima ma che, in parte, ha potuto beneficiare di un materiale umano grezzo alla fonte, promettente e di qualità indubbia. Di questa classe, su tutti, ho osservato con curiosità un ragazzino che soprannomino “il piccolo lord” perché presenta diverse caratteristiche che lo riconducono all’abbiente aristocrazia di altri tempi. Di statura elevata per la sua età, portamento eretto e signorile, sfoggia una pettinatura castano chiaro di media lunghezza con vistoso ciuffo sulla fronte, indossa dolcevita e, soprattutto, ha un difetto di pronuncia che l’immaginazione popolare attribuisce alla nobiltà se non alla ricca borghesia industriale.
Non dovete, però, riempirvi di pregiudizi. Malgrado l’apparenza e il fatto che, quando alza la mano per intervenire, esponga le cose in modo appropriato, con un linguaggio corretto e con quel tono che contraddistingue chi è consapevole che le proprie convinzioni siano quelle a cui il tempo darà ragione, quando chiamo alla lavagna il piccolo lord a correggere un’espressione o un problema non ha nessuna fretta di giungere al risultato per ostentare una capacità di centrare gli obiettivi nel minor tempo possibile. Esegue i calcoli con calma e senno prendendosi intelligentemente tutto il tempo che gli serve, ponendo anche molta attenzione alla forma. Scrive i numeri perfettamente inscritti nei quadratini della lavagna e allinea con maestria i piani delle operazioni in colonna.
Sono stato nella classe del piccolo lord ieri mattina. Dopo più di un’ora e mezza di matematica, era mezzogiorno passato, ho deciso di premiare l’attenzione e l’impegno con cui i ragazzi avevano seguito la mia lezione con il gioco del juke-box. Sorteggio tramite uno di quei siti che estraggono numeri random un alunno dell’elenco che può scegliere una canzone da ascoltare su Youtube. Le canzoni non devono contenere parolacce e i video devono essere proiettabili in contesto scolastico, cioè senza scene troppo esplicite, twerking e zozzerie simili.
Ieri la fortuna ha baciato due o tre compagni di classe del piccolo lord che, correttamente, hanno chiesto consigli agli altri prima di proporre la loro scelta. La scaletta è stata comunque piuttosto ordinaria e in linea (giustamente) con i gusti che manifestano i ragazzini del 2018: gli inediti di XFactor, un tormentone del momento e cose così. E, poco dopo, il miracolo.
L’ultimo numero a uscire prima che suoni la campanella dell’ultima ora è proprio quello del piccolo lord. Il ragazzo si solleva dal suo banco e si avvicina alla tastiera del laptop per digitare il titolo e l’autore della sua scelta. Preme il tasto enter e, sulla LIM, compare la copertina di una raccolta con il volto di John Denver. Simultaneamente, dalle casse si propaga uno dei più noti pezzi della storia del country. Un brano che parla di una strada da percorrere per tornare a casa, in qualche luogo sperduto della provincia statunitense, con parole che sottolineano l’appartenenza dell’anima ai luoghi, alle radici, alla tradizione. Il brano sfuma e, come prima cosa, chiedo al piccolo lord perché abbia scelto proprio “Country roads”. Con la sua erre particolare mi racconta del padre e della sua grande passione per la musica americana. Vorrei fargli capire la stima che provo per lui e la sua famiglia ma è troppo tardi, si sente l’inconfondibile trillo che ricorda ai docenti e ai supplenti che non c’è più tempo. Anch’io devo tornare a casa, lungo una strada che non somiglia per nulla al West Virginia e che non passa per le Blue Ridge Mountains ma chi se ne importa, al momento ho tante altre fortune.
SPLENDIDO! Vi amo entrambi.