Chi ha studiato ingegneria può confermarvi quanto il modo più efficace per risolvere un problema grande sia la sua suddivisione in tanti micro-problemi. Questo approccio può risultare utile anche per superare la fobia del settore pubblico. Se, come me, avete paura degli uffici della pubblica amministrazione e certe entità dal nome terrificante come la Ragioneria Territoriale dello Stato vi tolgono il sonno, il mio consiglio è quello di non pensare al pubblico come un buco nero che inghiottisce ogni istanza senza restituire una risposta. Certe rappresentazioni che ne sono state fatte, penso per esempio al palazzo da cui non si esce vivi dalla ricerca del lasciapassare A38, una citazione che crea un link tra Kafka e Asterix, non rendono giustizia agli uffici in cui lavora il personale del nostro stato.
Perché il punto è proprio quello: la pubblica amministrazione, con le sue gerarchie talvolta anacronistiche che sono difficili da interpretare per chi è abituato ai processi smart del privato (compreso quello di licenziarti sui due piedi, sia chiaro) è un universo che conviene scomporre in galassie, quindi in sistemi solari, quindi in pianeti, in emisferi, in continenti e via via fino ad arrivare ai singoli individui. Negli uffici del pubblico ci sono persone, gente come me e voi, minuscoli nodi di una rete incommensurabile ma non impossibili da raggiungere. Magari sono impiegati, funzionari, dirigenti che conoscete, avete sposato, con cui giocate insieme a calcetto, e non avete mai pensato a loro sotto questo punto di vista.
Il problema è che la fobia della pubblica amministrazione ti viene quando ti capita di commettere un errore in una procedura e nessun nodo della rete di cui sopra ti mette al corrente di quello che hai fatto. L’errore si pasce di questo vagare nella rete fino a quando, quadruplicato in termini di onerosità, è soggetto all’espulsione da qualche punto di scarico e ti ritorna sotto forma di un’entità oramai ingestibile. Potrei citarvi l’amara esperienza di una persona cara che, a causa di una di queste casualità, ha avuto la vita rovinata. Abbiamo tutti una multa nel cassetto che abbiamo pagato invertendo le cifre dell’importo a nostro svantaggio e che si è riproposta, mesi dopo, più minacciosa che mai.
Oppure potrei raccontarvi di quando mi è stato chiesto di mandare un fax per certificare l’esito positivo di un’operazione effettuata online. Un paradosso che però, nel paese delle firme digitali, dello SPID e della posta elettronica certificata, ci sta. Ma il numero di fax che mi era stato comunicato non funzionava. Dava sempre occupato. Ricordo di aver provato e riprovato in centinaia di momenti diversi nel corso di giorni diversi, ma niente. La cosa è andata avanti fino a quando ho trovato sul sito dell’ufficio in questione un indirizzo e-mail a cui ho mandato la mia, di richiesta, per il mio lasciapassare A38 – vedi citazione di prima – ma, appunto, è stato come abbandonare un messaggio in bottiglia al suo destino, nei flutti dell’oceano. Nessuno mi ha mai inviato un riscontro. Così ho tentato l’extrema ratio: mi sono fatto coraggio e ho telefonato negli orari cui, ancora secondo lo stesso sito, lo sportello doveva essere aperto. Ho telefonato e ritelefonato. Dieci, venti, cinquanta, cento volte, ancora con pessimi risultati. Occupato. Libero ma senza che nessuno rispondesse. Poi ancora occupato. E poi ancora libero ma senza che nessuno rispondesse.
Fino alla centounesima volta quando, al ventesimo squillo o giù di lì, proprio mentre stavo per desistere, ecco il miracolo. Una voce con l’immancabile accento del sud che risponde “pronto” come se non fosse successo niente. Come se all’altro capo non ci fosse un cittadino esasperato da migliaia di tentativi vani di avere una risposta al suo cazzo di problema. “Pronto”.
Senza alcuna premessa e evitando ogni polemica gli ho esposto il mio caso. Mi ha chiesto i dati per entrare nel suo sistema. Mi ha fatto attendere in linea e mi ha dato la risposta che cercavo. Mi ha assicurato che avrebbe comunicato lui le informazioni necessarie all’altro nodo di quella rete infernale in cui la mia pratica si era inceppata o, come ha sostenuto lui, dove qualche collega se ne era dimenticato, per portare a compimento il processo. L’ho ringraziato. Mi ha salutato. Entrambi abbiamo messo giù. Io sono rimasto qualche minuto nel silenzio della stanza da cui avevo chiamato per ripercorrere tutti i passaggi della conversazione telefonica appena conclusa, per sincerarmi che fosse vero quanto appena successo. Mi chiedo, ancora oggi, se lui all’altro capo del telefono abbia provato quello che ho provato io.