L’eccessiva esposizione alla fiction televisiva ha reso obsoleta la metafora della vita come un film. In realtà oggi ci sentiamo più affini a una serie di Netflix con tutte le sue puntate da consumare una dietro l’altra fino allo sfinimento e questo è il motivo per cui poi capita anche che alla fine ne abbiamo i coglioni pieni. Perché diluire i fatti in ore di girato quando, in un paio di tradizionali tempi cinematografici da un’ora e mezza in tutto, si può fare e dire un’intera esistenza? In un format da dodici puntate, questa è la media, noi cinquantenni dovremmo comunque essere più o meno alla settima, a essere ottimisti. E se vi va uno spoiler, siamo all’episodio in cui si sente il formicolio ai piedi a stare troppo seduti a tavola, ci si chiudono gli occhi a una certa ora perché il sonno arriva improvviso e non si ha più il pudore di dirgli di no. Nella testa risuona di continuo quella voce con cui vorremmo confessare che non ce ne frega un cazzo della conversazione che siamo costretti ad ascoltare e magari si abbattono certe barriere e ci si concede qualche spesuccia che prima, con la smania di mettere tutto via per i figli, non ci saremmo mai concessi. E come per le più intriganti serie americane, la sigla di ogni puntata è uno spettacolo a sé che dà allo spettatore i fattori salienti della vita che si racconta sulla musica più struggente che sia possibile immaginare, come a sancire che ogni capitolo comunque è riconducibile a una sceneggiatura ben definita, a una narrazione coerente, a un progetto da portare a termine. Speriamo ci scappi la seconda stagione, magari qualcuno da qualche parte l’ha già messa a budget.