Per il saggio di fine corso sullo storytelling hanno scelto invece di intervistare Paolo e Nino perché hanno paura del silenzio e di tutti i ronzii che genera. Sono fratelli e accendono sempre lo stereo in tutti i luoghi in cui stanziano, compreso il bar che gestiscono e dove ho visto una volta una vera rissa da far west. Erano da poco passate le nove di sera quando è entrato Lele, un bellimbusto tozzo ma veloce che rifornisce di sostanze stupefacenti principalmente chimiche gli ex eroinomani della zona. Si è presentato da solo, tutto spavaldo e a mani nude. Lele pratica un’arte marziale da combattimento, uno di quei mix dai nomi che fanno paura solo a pronunciarli, e in quattro e quattr’otto ha steso tutti. Ci mancavano solo le sedie spaccate sulla testa. In sottofondo quella sera Nino e Paolo avevano messo “In Utero” dei Nirvana perché era uscito da poco e a tutti piaceva quella traccia in cui Kobain dice “I’m not the only one” e tutti ci sentivamo un po’ meno abbandonati in quel postaccio di provicia. Io ero lì con Marco perché stavamo preparando la strategia da adottare per un doppio appuntamento, inutile dire che ce la siamo svignata in tempo. Meglio tenersi alla larga dai guai, anche se con Marco talvolta volava qualche ceffone. Nell’intervista Nino e Paolo confessano quanta tristezza gli mettano le canzoni di Enzo Jannacci. Sostengono che il suo timbro è malinconico anche quando canta canzoni allegre perché ci sono sempre protagonisti che non se la passano bene. Poi gli intervistatori, per far vedere che se ne intendono, hanno scelto di rilanciare con un paragone con la canzone “Azzurro” di Celentano, che poi è di Paolo Conte, che sembra allegra perché è una marcetta ma ha la strofa in minore e quindi c’è poco da ridere.