[Questo articolo è uscito su Loudd.it]
Degli Interpol, si sa, gli ascoltatori più intransigenti non tollerano nulla di quanto pubblicato dopo “Turn On The Bright Lights”. Ogni lavoro seguito al disco di esordio sarebbe – dicono – un evidente sintomo di una inesorabile deriva stilistica. Tutte cazzate. La carriera di Banks e soci è un crescendo artistico. Ogni album conferma il compimento di un passo più distante dall’approccio ingenuamente derivativo degli inizi verso uno stile sempre più personale, senza nulla togliere a brani come “PDA” o “Obstacle 1” o a “Say Hello To The Angels” che, pur straordinari, irradiano onde di pulsar in campo nero e grondano piaceri inesplorati da ogni nota.
Pensate alla virata psichedelica di “Antics”, al suono ibrido e americano di “Our Love To Admire”, alla cupezza di “Interpol” fino alla maturità di “El Pintor”. Ogni long playing con un qualcosa in più rispetto al precedente per una band sempre più completa, malgrado il forfait di Carlos Dengler metta ancora a disagio i seguaci dell’alta fedeltà, intesa come quel patto di sangue che i membri della setta del rock sono tenuti a onorare con i loro compagni di band sino alla morte. Guai a voltare le spalle al branco.
E oggi se vi chiedete chissà, di questo passo, dove arriveranno gli Interpol, benvenuti sul pianeta “Marauder”. Il disco è stato anticipato da una efficace campagna sui social, utile a tenere vivo il fuoco tra i fan considerando che, dai tempi di “El Pintor”, sono passati quattro anni. In mezzo c’è stato il tour del quindicennale di “Turn On The Bright Lights” e, non dimentichiamo, un esperimento di rara bruttezza come “Anything But Words”, il progetto di RZA con Paul Banks. Fattori che hanno contribuito ad aumentare le aspettative sul nuovo disco, considerando che l’età media del gruppo ora è abbondantemente sopra i quaranta (Banks è del 78, Kessler del 74 e Fogarino è un cinquantenne) e gli Interpol non sono più la fresca novità della new-new wave di inizio secolo. Senza contare che molti di quelli che li ascoltavano allora oggi non li seguono nemmeno più.
Così andiamo direttamente al punto: in “Marauder” non troverete una canzone deludente tra le undici (più due interludi strumentali da un minuto ciascuno) che compongono il disco. Nemmeno mezza. Nemmeno un momento che faccia venir voglia di skippare alla traccia successiva. Nemmeno un barlume di fastidio per il timbro vocale sempre uguale a se stesso, per i riff di chitarra ripetuti all’estremo, per le parti strumentali rumorose e infinite. Gli Interpol sembrano sfidarci, in ogni brano, a trovare questo punto di non ritorno. Ma ogni traccia di “Marauder” ha una trovata messa al secondo giusto, inserita proprio mentre stiamo per dire che anche questa volta non sono riusciti a bissare “Turn On The Bright Lights”. Così, canzone dopo canzone, spuntiamo l’intento riuscito, l’aspettativa corrisposta, il valore che porterà il nostro voto finale al punteggio massimo che, questa volta, agli Interpol non glielo toglie nessuno.
“Marauder”, a differenza di “El Pintor”, parte di getto. Con “If You Really Love Nothing” siamo già nel pieno del disco. Ritmo alla “The Passenger” di Iggy Pop, per intenderci (è il primo pezzo con un ritmo shuffle nella storia della band newyorkese, e in questo primo scorcio di disco sembrano aver intenzione di recuperare il tempo perduto) e tutte le potenzialità per essere un singolo di successo. “The Rover”, la traccia successiva e primo estratto del disco pubblicato a giugno, si muove in bilico nel contrasto tra il tempo incalzante e la melodia distesa. Non cambia la formula con “Complications”, in cui a complicare il tutto però c’è la chitarra in levare e certi richiami ai The Cure di “10:15 Saturday Night”.
Gli Interpol belli quadrati come li conosciamo tornano con la quarta traccia, “Flight of Fancy”, che forse ricorda nella strofa qualcosa di già sentito nei vecchi dischi ma chi se ne importa. Una canzone che fila dritta fino al cambio a metà, uno stravolgimento magistrale da cui il brano non si riprenderà più lungo un crescendo mozzafiato. Con “Stay In Touch” il disco si dà una bella calmata. Siamo dalle parti di “Evil”, come atmosfera, con l’aggiunta di incastri di chitarre e, anche qui, di un’evoluzione che accompagna l’ascoltatore verso uno sviluppo inaspettato, considerato l’inizio del brano, e una bella serie di sottrazioni graduali di strumenti fino al finale di batteria nuda.
Il primo dei due interludi serve a farci salire in cima alla “Mountain Child”, in cui Banks dà il meglio delle sue capacità vocali. La vista da lassù è spettacolare. Si può godere dell’armonia della canzone e del modo unico, pienamente rodato, che hanno gli Interpol di suonare insieme. Anche la veloce “Now You See Me At Work”, resa con l’acronimo “NYSMAW” e introdotta da un tributo a Prince e alla sua “Alphabet Street”, mantiene la stessa formula. E meno male che dopo cambia tutto con “Surveillance”, apparentemente disordinata nella sequenza delle parti fino al ritornello grazie al quale prende il volo e, da lì, chi la vede più. Vi sfido a non perdervi nel labirinto della coda strutturata in un modo che, davvero, potrebbe durare in eterno.
Anche “Number 10” è uscita in anticipo e, riascoltata qui, al centro dell’album, assume una venatura ancora più decisa. Il disco si avvia alla conclusione proprio con “Party’s Over”, forse l’angolo più dark dell’ellepi, costruito su un pattern di batteria ossessivo e suoni rarefatti. E così, quando sembra che “Marauder” stia per riportare gli Interpol verso le atmosfere delle origini, ecco la traccia conclusiva, una ballad su un improbabile ritmo funky che, battuta dopo battuta, si trasforma verso la perfezione con una chiusura più che all’altezza di un disco così riuscito.
Di sicuro “Marauder” è il disco più elettrico degli Interpol. Per alcuni aspetti il più rock. Per altri una summa dei lavori precedenti. Sicuramente il più articolato, per non dire il più complesso. Quello che è certo è che nessuno se lo sarebbe mai aspettato così bello.