[questo articolo è uscito su loudd.it]
È 1980 e il reggae e i suoi derivati stanno attraversando uno dei periodi più floridi della storia. La musica in levare è uno dei generi più popolari soprattutto in UK, un primato a cui contribuiscono diversi fattori. L’ambasciatore ufficiale della musica giamaicana, Bob Marley, a giugno pubblica l’album definitivo (in tutti i sensi, considerando che sarà l’ultimo) con tanto di successi internazionali quali “Could you be loved?” e “Redemption Song”. Ai concerti punk, prima dell’esibizione dal vivo, l’usanza è quella di scaldare il pubblico con del reggae e a Londra giamaicani e inglesi si contaminano con i rispettivi ascolti. Lo ska della 2Tone è sulla cresta dell’onda e le band di punta come i Selecter, gli Specials e i Beat mescolano musicisti neri e bianchi tra le loro fila per fare una sintesi del meglio dei generi e della società in circolazione. In tutto ciò, la recente elezione di Margaret Thatcher, il consenso suscitato dal National Front e la disoccupazione crescente contribuiscono a confondere le cose e a minare la solidarietà tra le classi meno abbienti, alimentando le tensioni tra chi non se la passa troppo bene.
L’Unemployment Benefit Form 40 è il modulo per la richiesta al dipartimento del lavoro del governo britannico del sussidio di disoccupazione ed è ancora un cardine dello stato sociale inglese. La sigla e il progetto UB40, nel senso della band, hanno quindi un significato ben definito: il colore della pelle non comporta differenza se il problema è come garantirsi una vita dignitosa.
Certo, in tutto questo impegno e in un tripudio di messaggi di socialismo militante è difficile riconoscere lo stesso gruppo protagonista dell’esplosione commerciale e pop a metà degli 80. Anzi, se non fosse così inequivocabile il timbro della voce di Ali Campbell potremmo sbatterci a dimostrare che quelli di “Madam Medusa”, dedicato alla Iron Lady, e gli interpreti di “I Got You Babe” al fianco di Chrissie Hynde sono proprio due realtà che non ci azzeccano l’una con l’altra.
Eppure i solchi di “Signing Off” non lasciano dubbi e, peraltro, “Signing Off” è senza ombra di dubbio uno dei migliori dischi di reggae inglese di tutti i tempi. La genesi dell’album, che è poi la genesi degli UB40 stessi, la trovate descritta al meglio su Wikipedia. Ci sono alcuni passaggi divertenti, a partire dalle condizioni in cui è stato registrato il disco determinate dal budget limitato e l’atmosfera di entusiasmo portata nello studio casalingo di Bob Lamb dalla grande famiglia della band (comunque mica pochi) con il loro entourage.
Il suono che ha “Signing Off” è unico ed è facile confermare la stessa caratteristica oggi, a quasi quarant’anni di distanza. Il reggae è tutt’altro che roots, le canzoni affatto monotone nel loro incedere armonico, i pattern ritmici molto vari e con diverse sfumature di shuffle. Le chitarre graffianti nel loro inarrestabile levare si alternano a fraseggi o assoli accennati, spesso con effetti tipici del suono dell’epoca. Il basso è magistrale, come da copione nel reggae, e sostiene tutto l’apparato di pulsazioni dub, con alcuni sconfinamenti antesignani della drum’n’bass, come il finale di “Burden of Shame”. Pochissimi organi ma tanti suoni innovativi di tastiere, che ci proiettano già in quello che avverrà dopo – anche nel reggae – ma senza alcuna deriva nei suoni di plastica che invaderanno l’estetica musicale del decennio appena agli albori.
Non solo. Osservando “Signing Off” da qui, risulta inalterata l’attualità conscious dei testi: l’ingiusta sentenza ai danni di “Tyler”, un 17enne nero alla mercè di una giuria di bianchi accusato e poi condannato per l’omicidio di un ragazzo dalla pelle più chiara; “King”, dedicata all’omonimo Martin Luther; la dicotomia tra nord e sud del mondo di “Food for Thought” il cui tema di sax, nella sua semplicità, resterà uno dei cavalli di battaglia degli UB40.