Con i cantautori degli anni settanta c’era poco da ridere. Le canzoni non dico spigliate ma almeno non deprimenti sono una rarità. Guccini e la sua “Avvelenata”, “Vaudeville” di Vecchioni, quasi tutta la discografia di Bennato ma perché lui ha una matrice anomala. Lo specifico del cantautore di quegli anni era tutt’altro quello del buontempone e, credetemi, meglio così perché con questa gravità di contenuti abbiamo fatto scuola e si ricordano ancora di questa cosa tutta nostra anche all’estero. “Aspettando Godot” è uno di quei dischi che noi che siamo cresciuti con dei fratelli maggiori in quegli anni lì custodiamo gelosamente nella nostra collezione anche se, a dire il vero, raramente ci viene voglia di metterlo sul piatto. Non sono tempi di metasignificati, questi. Si punta sulla generalizzazione e sulla semplificazione, la sintesi che il nuovo ciclo (sub)culturale impone non lascia spazio agli approfondimenti. Se ci si guarda dentro è per accedere alla cronologia dei social. Non c’è spazio per riflettere, in così pochi caratteri a malapena ci sta il titolo. Tantomeno se le parole di certe canzoni della cui esistenza ci ricordiamo quando è il loro autore a lasciarci ci buttano giù di morale: l’amarezza della vita, gli amori non corrisposti, gli ostacoli più alti per i più deboli e persino la morte. Stamattina mi è sembrato doveroso ascoltare la mia copia del 33 giri di “Aspettando Godot” di Claudio Lolli. Poi mia moglie ed io ci siamo guardati e nemmeno a metà della titletrack, la prima traccia del lato A, abbiamo spento, cogliendo l’inappropriatezza del tempo che viviamo rispetto alla canzone, mica il contrario, cosa credete.