[questo articolo è uscito su loudd.it]
Nel 1961 la new wave non era stata ancora inventata e lo spleen continuava ad essere un’esclusiva dei jazzisti. Un fattore da non trascurare, se si considera che in Italia il jazz si confermava unico baluardo in contrapposizione alla canzonetta (quello che oggi chiameremmo pop) e che, se permeava molte delle composizioni che si sentivano in giro – dalla musica da ballo alle sigle per la tv sino alla pubblicità – non era facile, per i caratteri più solari, mantenere l’ottimismo circondati da tutte quelle blue note. Soprattutto se i lenti cantati di matrice jazz favorivano stati d’animo come struggimento e tormento dovuti, ça va sans dire, a un amore andato a male.
In anticipo di più di mezzo secolo rispetto a una regina dell’inquietudine come Lana Del Rey, allo scoccare del solstizio di giugno non c’è canzone che interpreti meglio la summertime sadness che pervade i detrattori della bella stagione di “Estate” di Bruno Martino. Probabilmente composta senza alcuna particolare velleità di dare alle stampe musicali il capolavoro che si è poi rivelato, e probabilmente nata come tante altre canzonette o lenti da rotonda sul mare, melodie da ombrelloni, città vuote sotto la canicola, radioline da picnic, “Estate” è (credo) l’unico brano di un autore italiano compreso nel “Real Book”.
Di certo è diventato uno standard quanto composizioni jazz più blasonate se musicisti del calibro di Chet Baker, Michel Petrucciani e Toots Thielemans l’hanno suonata e messa in repertorio nei loro concerti. Per non parlare del successo della versione di Joao Gilberto, caratteristica per il costante anticipo dei versi della strofa rispetto al ritmo bossanova a un bpm di una lentezza mostruosa, una rivisitazione che peraltro ha contribuito ai tempi a diffondere la fama della canzone di Bruno Martino nel mondo.
Il titolo originale in realtà era il più appropriato “Odio l’estate”, un manifesto d’intenti dei cuori spezzati sopraffatti dalla diaspora degli affetti propria dei mesi più caldi. Gli animi neo-crepuscolari o post-esistenzialisti rifuggono la luce, la spensieratezza, le serate da una botta e via a cui le epidermidi al profumo di creme doposole inducono. Per i veri romantici dark l’amore non va in vacanza, e sopravvivere fino al ritorno dell’autunno non è un’impresa semplice.
E nell’estate del 1961 alle indole più sensibili ed emotive è stato concesso un po’ di ristoro con una manciata di versi e un’armonia perfettamente complementari. La solitudine auto-imposta in un’estate calda come i baci perduti e gli amori passati che il cuore vorrebbe cancellare, sarà vendicata solo dall’inverno spietato che, con le sue provvidenziali intemperie, spazzerà via ogni ricordo. Tutto questo su una successione di accordi e un arrangiamento degni dei maestri del jazz americano e delle grandi orchestre del dopoguerra.
Peccato che per colpa di una parodia di Lelio Luttazzi, che ne rimasticò il ritornello in “Odio le statue”, intuizione comunque esilarante, Bruno Martino ripiegò su un titolo meno d’effetto che poi è quello con cui ancora oggi i cantanti e interpreti più impegnati la ripropongono a loro modo. Ma è riduttivo pensare a “Estate” come all’espressione di un mondo agli antipodi rispetto al nostro, una citazione colta per chi vuol dar aria alla bocca per celebrare la bella canzone di una volta, una generalizzazione della nostra società piccolo borghese precedente alla bomba rivoluzionaria pronta a scoppiare di lì a qualche anno. Forse, se avessimo lo stesso culto che nelle scuole di jazz in USA si riserva alle radici musicali, uno come Bruno Martino qui da noi avrebbe la stessa considerazione con cui gli americani si ricordano di Nat King Cole.
P.s. “Odio l’estate” è anche un ottimo saggio di Paola De Simone dedicato proprio al grande Bruno Martino.