Ero in coda alla cassa del Libraccio di Viale Vittorio Veneto con ben sette ellepì trovati nel reparto dischi di seconda mano e l’attesa mi ha consentito una riflessione che, come è facile immaginare, non riguardava per nulla il fatto che stessi riconvertendo una parte del rimborso del 730, appena arrivata con lo stipendio di luglio, in qualcosa afferente la musica. No, un tale rimorso non mi assalirà mai. Pensavo invece al senso di introdurre nella propria vita cose che sostanzialmente sono ricordi di altri. Da sempre nutro una passione per l’usato, in generale. Mobili, abiti, libri, suppellettili, qualunque cosa. Una passione che ho messo in stand-by da quando rigattieri e robivecchi hanno intuito il business del passato, in quest’epoca lacunosa nei riferimenti del presente, e i prezzi non giustificano più il divertimento generato dal circondarsene. Mi limito ai dischi perché davvero non resisto. Essere e avere sono verbi reciprocamente ausiliari. Ma quando osservo le personalizzazioni dei precedenti proprietari (una pratica che, peraltro, punirei a frustate) sulle copertine o sulla busta interna mi chiedo quale possa essere il pezzo di vita che è coinciso tra quell’oggetto e chi ha deciso, a un certo punto, di sbarazzarsene. Davanti a me c’era qualche studente fiero di aver messo le mani su testi scolastici per l’anno prossimo, tutti sottolineati e magari con qualche esercizio già svolto. C’è qualcosa che spinge l’uomo a lasciare il segno sulle cose che possiede che è una componente fondamentale di questo mondo.