cronache dalla superficie

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Un bel vestito e una macchina elegante sono i principali fattori che trasmettono la tranquillità economica di una persona. Non a caso a chi lavora nelle vendite viene imposto il decoro, da questo punto di vista, e le aziende spendono ancora fior di quattrini nel parco macchine in modo che chi viaggia per divulgare il verbo e portare a casa contratti si muova con auto di lusso per far parlare di sé laddove subentrino i limiti della preparazione professionale o dell’attitudine stessa ai rapporti interpersonali. Che poi dietro ad outfit alla moda e cassoni da decine di migliaia di euro ci sia un background di miseria etica e intellettuale o, peggio, imprese sul baratro che spingono sull’acceleratore del marketing aggressivo, questo si percepisce poco. Ma il punto è che questa è una forma mentis diffusa anche nella sfera privata delle persone. Un uomo dimesso con una macchina dal design superato e, magari, tenuta male se non sporca, viene visto con diffidenza anche se magari fa l’oncologo. Il problema è vecchio quanto il genere umano e quindi taglierei corto se non fosse che capita che le vittime di siffatti pregiudizi siano i figli di genitori con un’idea di sicurezza di status obsoleta e ancorata all’aspetto esteriore. Il dramma è quando discriminazioni di questo genere si manifestano nei confronti di fratelli. A quella con l’ultimo modello di berlina e in tailleur viene riconosciuto maggior credito rispetto al fratello più sgarruppato con le sneackers al volante di un’auto di quindici anni fa ammaccata e con gli aghi di pino del campeggio del 2013 ancora sotto il tappetino. Un pregiudizio gravissimo, per di più mosso dalla madre. Quando capitano episodi come questo, e conosco che li subisce ancora adesso a più di cinquant’anni, mi chiedo cosa aspetti l’umanità a crescere, visto che l’umanità si pone la stessa domanda nei confronti di chi, di auto e bei vestiti, se ne fotte.

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