Tra gli stati d’animo del genere umano la vergogna probabilmente è il più misterioso e sono più che certo che quando gli extraterrestri faranno esperimenti su di noi si divertiranno un mondo (il nostro) ad accendere e spegnere quel tasto che attiva quel tipico turbamento portato all’eccesso dovuto a qualcosa che abbiamo fatto o detto e che era meglio se stavamo fermi o muti. L’entità dei postumi delle figure di merda varia orizzontalmente a seconda della sensibilità ma, verticalmente, resta tale fino alla fine dei giorni, freno inibitorio più freno inibitorio meno. Non c’è una cura e se vi vergognavate con un valore X a sette anni potete stare certi che a cinquantasette il valore X sarà sempre lo stesso. Una costante, malgrado l’apparenza da variabile.
Così come anche le più sonore sbronze lasciano rientrare la lucidità o certi febbroni a quaranta con un po’ di pazienza e qualche medicina di big pharma si dileguano, vergogna e imbarazzo rimangono latenti sottopelle a decantare e ci vuole un po’ prima di smaltire la figuraccia. Sarebbe bello intanto visualizzare in qualche modo l’energia che si sprigiona dentro di noi dalla gaffe negli istanti a ridosso della catastrofe, come quegli esperimenti chimici di sostanze immerse in un liquido che rapidamente si espandono o colorano l’intera capacità del recipiente. Una inevitabile reazione a catena, ecco, non mi veniva il termine. Allo stesso modo i residui della vergogna ce li immaginiamo come un fondo di poltiglia spesso due dita dopo un’alluvione o un corso d’acqua che tracima, quando resta quel tappeto di schifezza che comunque lascia prevalere l’ottimismo della sciagura che è è stata scampata ma resta qualcosa a ricordarti la paternità dell’accaduto che, usciti dalla metafora, è tua. Anzi, molto spesso è mia.