Mario si era presentato all’inizio dell’anno accademico con tre settimane di ritardo rispetto all’inizio delle lezioni e i postumi di un intervento piuttosto invasivo agli incisivi superiori e inferiori, in tempi in cui costituiva ancora un passo poco comune, piuttosto esclusivo e dai risultati indiscutibilmente imprevedibili. Il muro di Berlino sarebbe caduto poco meno di un anno dopo e i tempi del turismo dentale nei paesi in cui più tardi si frammenterà l’ex Jugoslavia (e in generale tutti i contraenti del patto di Varsavia) erano ancora distanti. L’impianto sembrava comunque avergli giovato tanto era messo male prima, e a tal punto da renderlo quasi irriconoscibile in certi tratti già allora. Figuriamoci oggi. Non a caso Claudia si è confrontata con lui sul fatto se a cena fuori con i compagni di classe o di corso quaranta, trenta o vent’anni dalla fine (a seconda dell’età e di quale ciclo scolastico si stia celebrando) sia bene andare o meno. Darsi malato, inventare una scusa, non farsi trovare o, al limite, dirsi la verità. Non ne ha fatto una questione morettiana, passatemi il termine, banalizzando la questione se la si notasse di più in caso di confermata o mancata partecipazione. Io Mario non ricordo più nemmeno che faccia abbia, per dire. Magari potrei scorgere i tratti della percezione che ho di lui ancora non investito dalla furia del tempo in persone qualunque, come ci capita talvolta di ravvisare adulti che conosciamo in ragazzini per poi scoprire che di quegli adulti, che magari erano nostre frequentazioni da bambini, sono i loro figli. Le facce rimangono cristallizzate come quel racconto di Paul Benjamin, che poi è l’alter ego di Paul Auster in “Smoke”, in cui un uomo perde il proprio padre in montagna da adolescente e poi ne ritrova il corpo ibernato nei ghiacci molti anni dopo, da adulto, più vecchio dell’età che aveva il papà al momento della morte.