Si tendono a sottovalutare alcuni aspetti collaterali dell’essere in vacanza all’estero, a partire dalla bassa percentuale di italiani con cui ci si trova a contatto anche se è raro non sentire il nostro idioma almeno una volta anche nei posti meno turistici del pianeta. Scherzo, naturalmente. Non ho nulla da recriminare ai miei connazionali. Meglio parlare piuttosto di quello che ci si lascia alle spalle quando si è in viaggio. Per qualche giorno, per esempio, ho smesso di avere la sveglia puntata alle sei del mattino, sia quella fisica (nel senso di display e microprocessore) sia quella biologica (ovvero quella che ci portiamo dentro dopo mesi di abitudini e che squilla imperterrita alle sei del mattino anche nei giorni di festa) e sia quella felina (la peggiore, quella che subentra in caso di malfunzionamento delle due precedenti e che consiste nell’impietosa sfrontatezza di uno dei gatti di casa che viene a ricordarti a suo modo gli orari dei pasti). Avere così interrotte le ultime più dolci ore del sonno notturno ci fa perdere cose meravigliose, come quella fase che non saprei dire come si chiama ma che è popolatissima di sogni che poi si ricordano. Qui in Andalusia ne ho fatti due piuttosto suggestivi. Un paio di notti fa mi trovavo in una via di Granada e incontravo il mio amico architetto Vic (al secolo Vincenzo) in una delle variopinte calli del centro storico. Scendeva da una berlina anni 70 e, a differenza del suo aspetto attuale, aveva i capelli lunghi e somigliava indiscutibilmente a Manuel Agnelli. Anche di viso. Anzi, forse era proprio il cantante degli Afterhours. Sembrava sorpreso – giustamente – di trovarmi lì, e mentre giustificava la sua presenza la strada si è riempita di Pokemon gialli in scala umana, tutti comparsi dal nulla. Il secondo sogno degno di essere raccontato l’ho fatto stanotte. Ero in viaggio di lavoro (ma con la mia famiglia al seguito) in Israele. Ci siamo accomodati su un convoglio d’epoca per il viaggio di ritorno, e lì ha avuto inizio un lunghissimo tragitto lungo una marea di nazioni che io vedevo scorrere, una dopo l’altra, su una linea evidenziata in una mappa geografica, proprio come l’escamotage usato nei film per tagliare corto con le lunghe distanze e arrivare al punto d’arrivo. Il viaggio ha fatto peraltro tappa in una città del Belize, non chiedetemi il perché, in cui ci siamo rinfrescati con la sangria in un chiosco gremito di gente del posto che ballava reggaeton. Un italiano, in viaggio con noi, parlando con un autoctono ha sbagliato clamorosamente la pronuncia del borgo in cui ci trovavamo ed è stato prontamente redarguito. Ho ripetuto mentalmente il nome del posto e poi mi sono svegliato, pensando agli italiani che si incontrano in viaggio e che non conoscono le lingue straniere.