Se un giorno cambierò lavoro per andare a svolgere una professione con una percentuale superiore di rapporti interpersonali diretti e ad alto tasso di relazione dal vivo, per esempio l’insegnante, una cosa che non mi mancherà per nulla saranno le telefonate di lavoro.
Io odio le telefonate di lavoro per una serie di svariati motivi. Intanto perché iniziano spesso allo stesso modo ma non sai mai dove possono andare a parare. La gamma degli esiti va da una vendita conclusa con successo a fammi parlare con il tuo responsabile così ti faccio licenziare, ora entrambi questi estremi non costituiscono il mio caso ma l’imprevedibilità di quando squilla il telefono e vedo comparire un contatto della rubrica professionale mi fa venire sempre i brividi. Avevo messo come suoneria uno dei miei pezzi preferiti ma poi ho deciso di toglierlo perché ormai lo associavo alle chiamate di lavoro – tenete conto che a me della sfera personale non telefona mai nessuno a parte mia moglie e mia figlia – e iniziavo a odiarlo e questo non è bello.
Nelle telefonate di lavoro poi non si dice mai la verità. Ci stiamo lavorando significa non abbiamo nemmeno iniziato, stavo per chiamarti vuole dire speravo di riuscire a evitare di parlarti perché siamo in ritardo con la consegna, fammi fare un check e poi ti mando un feedback via email non vuole dire nulla se non ora non c’ho sbatti di pensare a una soluzione, se ne riparla lunedì. Persino il banale ciao come va tutto bene è una sorta di autoreply e sfido chiunque di voi a ricordarsi almeno una delle risposte che il vostro interlocutore vi ha dato nella giornata di ieri.
Ma soprattutto quello di cui sono stufo è la finalità commerciale della conversazione telefonica di lavoro, il fatto che qualunque cosa sia detta per mantenere il più a lungo possibile il rapporto economico con quella persona e che, alla fine, durante la telefonata di lavoro siamo attori di una tragedia di cui adesso mi sfugge la trama ma fatemici pensare, poi vi richiamo e ne parliamo.