La dirompente, ingombrante e pervasiva diffusione degli smartphone nella nostra vita costituisce lo spartiacque tra letteratura e cinema pre e post digitale. Questo comporta che leggere un libro o vedere un film girato prima del duemila e rotti in cui il comportamento dei protagonisti non è condizionato dalla tecnologia, come invece ora ci succede in ogni istante, ci mette al cospetto di un genere umano abitante di un’altra era in cui non solo si ricorreva ad altri metodi per fare le cose che oggi facciamo attraverso la tecnologia ma quelle particolari abitudini o tic che non notiamo più, a partire dalla frequenza con cui controlliamo i nostri canali di comunicazione ed entertainment, ma che si susseguono ricorrenti accompagnandoci e, spesso, condizionando ogni attività, dalla passeggiata o durante una qualunque conversazione per non parlare di quando siamo al cesso e stiamo su Facebook anziché leggere Topolino, sono completamente assenti e saltano all’occhio come una qualunque scena – che oggi seguendo un meme fotografico definiremmo rigorosamente no-wifi – de “La casa nella prateria”.
Molte delle situazioni che troviamo in storie accadute a ridosso dell’era della e-dipendenza sarebbero andate diversamente con un’app di supporto e quando vediamo che solo dieci anni fa senza Instagram e WhatsApp non c’era nessun modo per condividere una story ci lascia straniti, come gli uomini che guidavano auto anni 70 senza cintura, impiegati che fumavano in ufficio o gli amici che si davano appuntamento e riuscivano a incontrarsi lo stesso in caso di imprevisti dell’ultimo minuto senza aggiornarsi con il telefonino. Vedi o leggi di gente che sui mezzi pubblici si innamora reciprocamente anziché guardare le serie di Netflix o che scrive con una Lettera 22 o con carta e penna e, di fronte alla necessità di spostare un blocco di testo da un punto all’altro della composizione, non si perde d’animo e ricomincia da capo.
L’Internet è piena di riflessioni, per esempio, sulla serie “Friends” e su come oggi ci sembra curioso il fatto che sei amici trascorressero tempo in casa o al bar senza dare nemmeno una ditata su uno schermo touch, o che uno spunto come Phoebe che canta “Gatto rognoso” non sia stato mai video-ripreso da qualcuno dei suoi amici (nella finzione della storia) e fatto diventare virale. Questo paradosso nella sceneggiatura può essere applicato anche a qualunque altra fiction prodotta a cavallo tra i due secoli.
La riflessione che ne consegue è che oggi, se tagliamo tutti gli aspetti della nostra vita che non possono esistere ed essere plausibili senza un supporto digitale, l’impressione che ho è che ci rimanga ben poco e, credetemi, non voglio passare per uno di quei luddisti tromboni che il profumo della carta. Però proviamo a non considerare tutte le occhiate che diamo allo smartphone, gli istanti che fotografiamo, le conversazioni parzialmente in differita che teniamo tramite la messaggistica istantanea o la vita con gli altri che trascorriamo sui social network, persino il tempo che dedichiamo, mediato dalla tecnologia, a noi stessi e alle persone che abbiamo più vicino, per non parlare del lavoro. Quanto ci resta?