Insegnare ad andare in bici a mia figlia è un cosa che mi è venuta particolarmente bene. È successo ormai tanto tempo fa, quindi è facile che possa dimenticarmi qualche particolare, però ho ancora abbastanza in mente come abbiamo affrontato tutte le fasi di apprendimento. Era piccolissima, la bici era piccolissima, e io dovevo chinarmi in una postura innaturale per uno della mia statura per spingerla con la mano dietro la schiena e l’altra pronta ad acchiapparla in caso di problemi. I concetti base li ha fatti saldi con me tra il venerdì pomeriggio e il sabato mattina. Poi il sabato pomeriggio di quel weekend è rimasta nella via sotto casa, che è abbastanza tranquilla, con le due sorelle figlie del mio dirimpettaio che le hanno trasmesso tutti i trucchi da ragazzi per imparare al meglio e, la domenica mattina, mia figlia stava perfettamente in equilibrio e pedalava con la massima perizia. Forse già il fine settimana dopo avevamo fatto una gitarella lungo le strade sterrate di un parco qui nei pressi e, anche sulla lunga distanza, se l’era cavata alla grande, tutta fiera del suo caschetto. Sarà perché abbiamo toccato il massimo nella fase di apprendimento che poi, da allora ad oggi, mia figlia in bici ci è andata pochissimo. Io speravo nelle escursioni campestri insieme con picnic incluso e nell’esplorazione congiunta della città durante i fine settimana eppure nulla. Come altri classici dei rapporti genitori-figli in cui i figli, per scelta o per natura, non fanno quello che vorrebbero i genitori, mia figlia non solo non mi segue in questa mia passione ma saranno anni che non sale su una due ruote. Anch’io probabilmente devo aver fatto qualcosa di profonda rottura con mia mamma e mio papà e, giustamente, ora ne pago le conseguenze. Come si dice, la vita è un ciclo.
Magari la città non aiuta molto a usare la bici, magari la riscoprirà tra qualche anno e si rammaricherà delle occasioni perse per pedalare con papà. Magari no