Mi chiamo Moneta di cognome ed è per questo che di storie sui soldi ne so a pacchi ma raccontare storie, si sa, non è una passione redditizia. Di soldi puoi scrivere quanto vuoi ma alla fine ne vedi ben pochi.
Mi chiamo Moneta di cognome e una volta sul lavoro per scherzare mi hanno soprannominato Soldino, come quel personaggio dei fumetti. Sono genovese e da noi il denaro è una tradizione, per alcuni un fine, per altri un’ossessione, di certo è un aspetto che fa parte della nostra cultura da secoli per questioni di commerci e di banchieri, più che di prestigio, e ancora oggi quando pensi alla mia città ti vengono in mente le barzellette e gli scozzesi. Io dico che si tratta di parsimonia ma non faccio testo, non ho voce in capitolo perché mia madre, che è molto anziana, e mio papà, che è mancato da poco, malgrado siano liguri come me, hanno sperperato i risparmi durante la loro vita per riempirsi di cose. Cose e beni di tutti i tipi: utili e inutili, resistenti e usa e getta, da esporre e da divorare, da conservare nel congelatore e da stipare in dispensa, di qualità e di pessimo gusto, alla moda e senza tempo, pagandole in contanti e sottoscrivendo rateizzazioni, su CD e in vinile, a fascicoli settimanali e rilegate in cofanetti, da collezione e da tanto al mucchio.
Mio papà, anche lui fa di cognome Moneta, quando è andato in pensione non aveva amici e così, per passare il tempo, ha iniziato a catalogare tutte le cose accumulate nel corso della vita perché aveva paura di sprecare soldi comprando dei doppioni. Quando è morto, mia mamma ha provato a continuare il suo lavoro ma ha dovuto ammettere che il metodo scelto era estremamente complicato e, malgrado ci tenga tutt’ora per questioni affettive, credo che abbia desistito anche se non vuole ammetterlo. Un aspetto che sottolineo spesso, parlando di loro, è che si sono comprati tutto tranne la casa, con il risultato che avrò in eredità tantissime cose, alcune anche di valore, ma senza un posto per contenerle, il che è buffo. Non so nemmeno se riuscirò a svenderle per tirare su qualcosa per comprarmelo, il posto per contenerle, ma a quel punto, se dovessi riuscire nell’impresa, non avrò più le cose che nel frattempo ho venduto e quindi una casa non servirà più. Un corto circuito. Un bel dilemma. Un bel casino.
Mia nonna, la mamma di mio papà, quando viaggiava teneva i soldi nel reggipetto e segnava le spese sulla carta per alimenti, mi basta chiudere gli occhi per vedere la sua calligrafia e i numeri scritti a matita nera su sfondo color carta per alimenti. Se esistesse un nome o un valore esadecimale o una sigla per il pantone corrispondente alla carta per alimenti la avrei già usata prima, quindi prendetevi il riferimento così com’è e sforzate un po’ l’immaginazione. Considero quindi nonna Moneta – per lei era il cognome da coniugata perché quello da signorina era Cambiale, e non sto scherzando, provate a googlarne la veridicità – la capostipite di una dinastia di spreconi. Mi spiace ma non ho informazioni sui bisnonni e chi li ha preceduti, quindi non conosco le radici di questo albero genealogico di sciagurati. Mia mamma, per dire, pur essendo una Moneta acquisita ha fatto suo sin da subito l’approccio naif alla gestione delle risorse famigliari. Ho interpretato questa attitudine come una diffusa conseguenza di aver vissuto tempi magri durante la guerra, che in fondo è il motivo con cui una volta si giustificavano gli eccessi e le stranezze della nostra gente.
Vi do un altro spunto, poi fate voi. Il mio sogno proibito è quello di trovare una busta bianca, anonima e senza nessuna indicazione, contenente una mazzetta di banconote da cinquecento euro. Ho previsto tutto, naturalmente: la criminalità organizzata dell’est, radicata nel tessuto economico della città, impone il pagamento del pizzo ai commercianti ed esige interessi da usura in caso di inadempienze. Il gestore di un esercizio molto frequentato e utilizzato per il lavaggio di denaro sporco si presta a soccorrere economicamente a domicilio un amico taglieggiato con un prestito, ma smarrisce per strada la busta con i ventiquattromila euro (quarantotto banconote da cinquecento) che gli occorrono, così è costretto a scappare via perché non potrà mai ripagare l’ammanco e in più il suo eroismo non è servito a un bel niente. Immagino possa aver tentato il percorso a ritroso per cercarlo ma, in evidente affanno e in confusione per la situazione, non è il primo a non saper mantenere il controllo nei momenti difficili, va in tilt fino a rinunciare. Io – senza sapere nulla – passo da lì poco dopo rientrando dall’ufficio e, con il mio solito sguardo verso terra, noto la busta e il gioco è fatto. Non essendoci nessun indizio sul proprietario posso esimermi dal sentirmi in colpa. Ho trovato i soldi, i soldi non si sa di chi sono, i soldi sono i miei.
Non si tratta nemmeno di una cifra per la quale uno debba cambiare vita o lasciarsi soverchiare dallo stress per i risvolti che una ricchezza improvvisa e spropositata può comportare. Vinci otto milioni di euro, per dire, e vai nel panico perché puoi essere vittima di rapimenti o peggio o, nel migliore dei casi, non sai a chi dirlo per paura che se ne approfittino, sei nel dubbio se smettere di lavorare o se dividere la somma con parenti e amici, cose così. La ricchezza può mettere nei guai, ci dev’essere un modo di dire a proposito ma, al momento, non mi viene in mente. 24mila euro, al contrario, sono una sciocchezza, un anno e mezzo di lavoro, li metti sul libretto postale di tua figlia o ristrutturi il bagno perché di quelle piastrelle verdi del capitolato popolare anni 70 scelte dal geometra dell’impresa non ne puoi veramente più. La realtà però è che mi chiamo Moneta di nome ma non di fatto, anche quando si tratta di banconote. Non ho mai trovato granché per terra, malgrado lo sguardo in basso. Diecimila lire sotto il portone di casa che sono corso subito a investire in riviste musicali, qualcosina in più uscito da un bar che si chiamava Stravinsky, ma quella volta sono rientrato e ho offerto da bere persino agli sconosciuti e si tratta dell’unico caso davvero significativo, prendetelo come la metafora della mia vita.
Ma si rischia grosso anche a girare senza soldi. In certi casi la scusa che non hai contanti perché tanto c’è la carta di credito non se la beve nessuno. Ci sono i poveri agli incroci che chiedono aiuto, tanto per iniziare. In macchina tengo sempre una moneta da un euro per il carrello della spesa, ma non è che si può dare un euro ogni volta che qualcuno ti chiede una mano. Se sono a piedi e ho solo qualche centesimo, invece, mi vergogno e preferisco tirare dritto. Vi ricordate quando era tutto uno slalom tra tossici che ti chiedevano cento lire? Un altro Roberto, non l’amico che sta scrivendo questo racconto tutto sgrammaticato su di me ma uno che poi è veramente morto nel modo in cui si moriva per l’eroina e, come lui, anche le sue due sorelle, quel Roberto lì ti fermava per strada e frugava nelle tasche dei ragazzini – io avevo dodici anni – quando gli dicevi che sul serio, eri al verde.
Poi per essere poi uno che si chiama Moneta, e mi vergogno un po’ a scriverlo, io di economia non ci ho mai capito un tubo. Ma proprio niente. Non ho mai compreso perché, per esempio, per risolvere i problemi di debito e di povertà o una qualsiasi delle crisi di cui sento continuamente parlare da quando sono nato, non sia sufficiente stampare più banconote e distribuirle a chi ne ha bisogno. Lo so, è una sciocchezza grande come una casa, tanto che me ne guardo bene da scriverlo in un racconto a da chiederlo a qualcuno, anzi forse una volta l’ho fatto, ma ero a una cena, avevo bevuto, e della paziente spiegazione che ne è seguita non mi è rimasto nulla. Per scendere ancora più terra-terra, ammesso che più di così sia possibile, quando svolgevo la mia attività di libero professionista con partita IVA non ne comprendevo nemmeno gli aspetti più elementari, il giro dei soldi che entrano e quelli che escono e il fatto che, alla fine, di un pagamento ricevuto rimanesse sempre così poco. Se non esistessero i commercialisti sarei un uomo finito. In un impeto di orgoglio ho persino tentato un esame di Macroeconomia all’università, frequentavo tutte le lezioni, ma poi il docente aveva iniziato a canzonarmi per la mia capigliatura, aveva intuito il mio essere tabula rasa in materia e la difficoltà che, della materia, mi potesse rimanere qualcosa. Mi chiamava persino alla lavagna a dimostrare le teorie che c’erano scritte sui libri e negli appunti così dalla vergogna mi sono arreso e ci ho rinunciato. Devo avere ancora il libro di testo, però, da qualche parte.
I soldi, poi, non sono mai abbastanza. Questa è una banalità che mi diceva sempre Sandra, che era l’unica con cui malgrado la mancanza di argomenti potevo avere uno schietto confronto professionale. Parlo al passato perché non lavora più qui. Ho ancora vivo il ricordo di certe lunghe discussioni sulla bellezza delle parole che trovavamo nelle idee per le quali ci chiedevano di spremerci, in ufficio. Sandra poi faceva altro nel tempo libero perché aveva bisogno di arrotondare, e io le facevo notare quanto fosse delizioso il suono stesso di quel verbo. Arrotondare, come se smussare gli angoli consentisse guadagni extra e, se fosse così, ci dicevamo che tanto valeva farlo di mestiere. Te lo immagini?, mi chiedeva. Passare in rassegna le forme delle cose per levigare gli spigoli e, in senso lato, farlo anche con le persone, ma tutto questo fuori dall’orario lavorativo per ottenere profitti in più, magari in nero. Di qui il significato tetro e ambiguo dei contanti in tasca fuori controllo, quello dell’Agenzia delle Entrate, soldi che poi si purificano una volta spesi nemmeno fossimo noi un’associazione a delinquere che ha bisogno dei negozi per far circolare le banconote, o le banconote circolari senza angoli quindi arrotondate anch’esse, ancora un corto circuito o il gatto che si morde la coda finché a osservarlo non ti gira la testa e, se cadi, meglio che non ci siano angoli, quindi finivamo daccapo.
L’ultima cosa la voglio però tenere per me perché non saprei come spiegarla. Diciamo che se potessi riassumerla in un titolo la chiamerei “come fare i soldi scrivendo”. Qualche sera fa ero fuori a cena con il direttivo del Club degli Autori, i colleghi con i quali ci contendiamo le prime posizioni delle classifiche di vendita alternando sul mercato editoriale i nostri best seller in modo studiato ad hoc per non sottrarci il già ridotto pubblico degli appassionati. A turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo dando alla luce un’opera “più duratura del bronzo”, per dirla come quell’autore che abbiamo al liceo. Un giochino delle verità che ho proposto perché è una gag che ripetiamo spesso a casa, mia moglie ed io. Lei non si capacita del fatto che ci siano compositori musicali che mentre mettono insieme accordi e testo di una canzone non si rendono conto di stare lavorando a un pezzo epocale. Mi dice quindi “ma i Cure mentre registravano Seventeen Seconds sapevano di stare per pubblicare uno dei dischi più influenti per la musica che è venuta dopo?” oppure “ma David Bowie scrivendo il testo di Life on Mars non si rendeva conto di aver per le mani una delle canzoni più di successo della storia di tutti i tempi?”.
Allora per scherzare ogni volta che c’è qualcosa che vale la pena enfatizzare – di qualsiasi disciplina artistica o sportiva o anche culturale in genere – tiriamo fuori il dialogo della coscienza delle proprie capacità. Così con gli amici di penna (nel senso dei colleghi autori) ho voluto provare la consapevolezza reciproca dell’ammissione della responsabilità. D’altronde con i nostri libri generiamo esperienze di lettura, creiamo immaginarie vite parallele in cui perdere il filo di quelle vissute in prima persona, forgiamo opinioni, e di questi tempi di gif animate e democratizzazione della condivisione delle opinioni non è poco.
Qualcuno ha ricordato di essere entrato in trance compositiva e, uscitone, di aver ammesso di non aver mai letto qualcosa di simile a quanto aveva appena terminato. Altri hanno visto salire come il contatore dei distributori di benzina quando fai il pieno la lista dei follower e degli amici e in quattro e quattr’otto si sono trovati con decine di migliaia di visite, download, inviti a talk show. C’è persino quello che per dedicarsi alla narrativa si è licenziato e ha deciso di sfruttare l’istinto di sopravvivenza – che quando non hai un lavoro è assai complesso da gestire – per impegnarsi a fondo nel mestiere che voleva fare più di tutti gli altri e nel giro di qualche settimana era già uno scrittore di grido.
La mia storia, ve lo assicuro, ha però fatto sorridere più di tutte le altre. Era mezzanotte passata, dovevo ancora preparare un preventivo per lavoro e, sempre per lavoro anche se non sembrerebbe, pensare a un dialogo finto da inserire al posto di quello vero sulla scena di “Non ci resta che piangere” in cui Troisi e Benigni spiegano a Leonardo il termometro. La mia versione doveva avere come argomento la “trasformazione digitale” ma, come potete immaginare, non mi veniva in mente niente. Così mi sono inventato una storia come questa, in cui facevo finta di essere uno scrittore affermato che parlava di quella volta in cui, con altri autori amici, a turno ci siamo raccontati quando è stato il momento in cui abbiamo capito che stavamo per dare alla luce un bel libro. La storia poi l’ho messa in un racconto per un concorso e, mentre lo facevo, ho pensato che dev’essere un po’ come quando fai scivolare una moneta in uno di quei videogiochi da bar di una volta per rispondere all’invito scritto in inglese “Insert Coin”. La senti rotolare lungo un percorso tutto in discesa fino al tonfo metallico sulle altre monete dei giocatori che ti hanno preceduto. Dopo schiacci il pulsante per iniziare a giocare e il resto viene da sé.