Ieri sera mi è capitato di assistere a qualche minuto di “Passato e presente”, una trasmissione su Rai Storia dedicata ai grandi avvenimenti e ai protagonisti che ci hanno preceduto. Il programma è presentato da Paolo Mieli che, forte del suo background professionale, dà alla trasmissione un carattere di talk show giornalistico con l’evidente intento di trattare gli avvenimenti del passato – proprio come dice il titolo – come se fossero fatti di cronaca e attualità.
Il nobile obiettivo credo sia il tentativo di far appassionare alla storia anche lo spettatore medio attraverso un format a cui oramai, dopo decenni di discussioni politiche in tv, dovrebbe essere avvezzo. La trasmissione prevede la presenza in studio di un esperto e di tre studenti universitari che, sotto la guida del conduttore, sviluppano la discussione intorno all’argomento della puntata.
Il tema di ieri era “L’inquisizione e l’eresia dei Catari”. Tutto è filato liscio fino a quando Mieli ha chiesto ai tre giovani neolaureati di esprimere un giudizio sull’Inquisizione.
Le risposte si sono susseguite sorprendentemente in una perfetta par condicio: la prima interpellata ha risposto che è stata una formula sbagliata e va intesa come l’oppressione del dissenso, la seconda si è dichiarata a metà e metà a causa dell’argomento contraddittorio, il terzo ha invece sostenuto la sua totale approvazione, aggiungendo di trovare corretto che, per il rispetto delle regole, all’interno di un sistema – anche nel caso di una religione – ci debba essere un organo di controllo ad arginare la nascita di correnti. Ha concluso il suo intervento dicendo di averne un’idea positiva (min. 33:00 circa).
Mieli ha così chiesto allo storico cosa pensasse delle considerazione dei tre studenti. Egli, evidentemente imbarazzato da quanto appena ascoltato, ha glissato la polemica sottolineando che, pur apprezzando la carica morale, è poco efficace lasciarsi andare a giudizi sugli avvenimenti storici e che il compito degli studiosi è quello di non farsi sopraffare da criteri di valutazione anacronistici.
Il punto è proprio quello: trattare fatti dalle dinamiche appurate e consolidate lungo numerosi secoli di storiografia come se si fosse letta la notizia poco prima in un tweet dell’Ansa non ha molto senso e risulta un comportamento figlio dei nostri tempi in cui, costantemente affacciati sui social, ci sentiamo in dovere di esprimere un’opinione su tutto (anche sui programmi di Rai Storia condotti da Paolo Mieli come sto facendo io qui).
In generale il rischio è di banalizzare posizioni ormai assodate da anni e anni di studi autorevoli, compiuti da gente tutt’altro che laureata all’università della vita, con derive comiche e, per questo, pericolose, a partire dai negazionismi e complottismi per tutti i gusti a cui siamo esposti su Internet. Non c’è molta differenza tra considerare positivamente l’Inquisizione e dire che Mussolini ha fatto anche delle cose buone. In entrambi i casi non abbiamo vissuto in quel periodo e, così distanti, rischiamo di interpretare ciò che sappiamo esser successo (o che crediamo sia avvenuto) attraverso la pancia che, si sa, è stata pensata per ben altre funzioni. Per non parlare della figura di merda a cui rischiamo di esporci.
Questo, dicevo, in generale. In particolare, credo sia meglio tenere fuori dagli studi televisivi – quando si parla di storia – i giornalisti e i giovani studenti neolaureati. I programmi forse risulteranno un filo più noiosi, ma la credibilità del servizio pubblico ne trarrà sicuramente beneficio.
La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre. Le risposi che i giacobini avevano ragione e che, terrore o no, la rivoluzione francese era stata una cosa giusta. La maestra non ritenne di fare altre domande.
Max Collini